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NotizieCattivi per sempre?

Vent'anni in carcere. Alcuni dei quali passati anche nei circuiti di Alta Sicurezza, quelli in cui stanno "i mafiosi", "i cattivi per sempre". Vent'anni in carcere, senza condanna. Ornella Favero, da vent'anni impegnata, con Ristretti Orizzonti, nell'informazione, nella formazione e negli interventi sulle pene e sul carcere: ha compiuto un lungo viaggio nella detenzione italiana, da giornalista. L'esperienza, rielaborata senza buonismi, ha deciso di riassumerla in un libro recentemente pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele, "Cattivi per sempre? Voci dalle carceri: viaggio nei circuiti di Alta Sicurezza"

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Vent’anni in carcere. Alcuni dei quali passati anche nei circuiti di Alta Sicurezza, quelli in cui stanno “i mafiosi”, “i cattivi per sempre”. Vent’anni in carcere, senza condanna. Ornella Favero, da vent’anni impegnata, con Ristretti Orizzonti, nell’informazione, nella formazione e negli interventi sulle pene e sul carcere: ha compiuto un lungo viaggio nella detenzione italiana, da giornalista. L’esperienza, rielaborata senza buonismi, ha deciso di riassumerla in un libro recentemente pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele, Cattivi per sempre? Voci dalle carceri: viaggio nei circuiti di Alta Sicurezza. L’abbiamo intervistata chiedendole cosa la società che sta “fuori” proprio non si immagina degli uomini che stanno “dentro”.

Qual è la differenza tra “pena rabbiosa” e “pena riflessiva”?
Quando una persona entra in carcere e viene trattata, nella migliore delle ipotesi, come un bambino, privata della possibilità di decidere qualsiasi cosa della sua vita, anche l’ora in cui farsi la doccia, o quando, ancora peggio, viene spogliata della sua dignità, il carcere non fa altro che indurre in questa persona la sensazione di essere una vittima del sistema, la fa vivere a “pane e rabbia”, la punisce con una aggiunta di pena che va ben oltre quella che dovrebbe essere davvero la condanna, cioè la privazione della libertà.  La società dovrebbe capire che la pena scontata così, in modo rabbioso, fa uscire solo persone incattivite. Quando si parla di sicurezza nelle nostre città, si usa spesso, rispetto agli autori di reato, l’espressione “che stiano a marcire in galera fino all’ultimo giorno”: in realtà, chi sta a marcire in galera sconta, appunto, una pena rabbiosa, e alla fine quando esce ha solo una voglia di rivalsa nei confronti della società. È proprio la pena mite che invece mette le persone di fronte alla loro responsabilità, le costringe a misurarsi con le loro scelte sbagliate: mi viene in mente Raffaele, un giovane detenuto che ha girato tante carceri, sempre trasferito perché insofferente delle regole, aggressivo, ma anche perché si trovava davanti un’istituzione che sapeva solo reprimerlo e punirlo, poi è arrivato in un carcere più umano, si è sentito considerato come una persona, ha iniziato un percorso di confronto con le scuole che lo ha portato a rivedere tutto il suo passato. E qualche giorno fa in un incontro con gli studenti ha esordito dicendo “Grazie perché mi fate sentire colpevole”. È come se, in qualche modo, si fosse pacificato con se stesso, se avesse sgombrato il campo dalla rabbia e avesse smesso di cercare alibi per i suoi disastri, e avesse finalmente accettato di fare i conti con la sua responsabilità.

“Oggi in carcere alla pena della privazione della libertà si aggiungono quella del sovraffollamento, dell’inattività, della mancanza di percorsi di reinserimento, della privazione continua della dignità, e se uno si fa una carcerazione così, e magari per la rabbia accumula altre condanne stando in carcere o perde anni di liberazione anticipata, perché dovrebbe poi sentirsi in debito verso la società?”. In questo capitolo del libro lei sostiene che nulla è più distruttivo di un carcere che ti fa sentire in credito verso la società, nonostante il danno che le hai arrecato. Tuttavia anche la società libera formula un credito verso coloro che ne infrangono le leggi.
Se detenuti e uomini liberi si sentono in credito gli uni verso gli altri, a cosa porta la somma dei crediti?
Ho sentito tante volte persone detenute dire “Ho pagato il mio debito con la Giustizia. A me non piace molto questa formula, perché è come se la persona detenuta avesse interiorizzato l’idea che al male si risponde con altrettanto male, e quindi ritenesse che, se sta scontando la sua pena, e magari in condizioni di illegalità, come succede spesso nelle nostre galere, in questo modo sta ripagando con la sua sofferenza la sofferenza provocata, quindi il suo debito con la società è estinto. In realtà, penso che si dovrebbe andar oltre l’idea che la sofferenza del reo procuri piacere e soddisfazione nella vittima, e iniziare a pensare a una idea diversa di Giustizia, quella che ripara il danno provocato dal reato, che ricuce lo strappo che si è prodotto. Un esempio? Mi viene in mente una madre, che ha perso un figlio, ucciso da una donna che guidava usando il cellulare: lei non chiedeva per la donna che le ha ucciso il figlio il carcere, la pena “cattiva”, chiedeva di poterla incontrare, di spiegarle il suo dolore, la sua perdita, il vuoto che le aveva provocato. A volte è proprio l’incontro tra autore e vittima di reato che dà sollievo, che cura le ferite, che fa capire davvero le conseguenze del reato. Penso a quella studentessa che,  durante un incontro in carcere con persone detenute della mia redazione, si è alzata e ha raccontato che aveva trovato, di notte, in casa un estraneo, un ladro, e che da quel momento la sua vita era radicalmente cambiata: prima, era una persona coraggiosa, oggi ha paura di tutto, si sveglia nel terrore, non riesce più a stare da sola. Ricordo fra i detenuti una specie di sgomento: perché spesso chi commette questi reati, furti in appartamento, rapine, immagina che la paura duri quanto dura quell’azione, si giustifica, dice che certo un’arma ce l’aveva quando andava a rapinare, ma non intendeva usarla… è servita di più la testimonianza di quella studentessa che non anni di galera per far capire a tanti autori di “reati contro il patrimonio” quanto quei reati rovinino a volte la qualità della vita di chi li subisce. L’incontro, il confronto sono il modo migliore per stabilire  dove sta la responsabilità, chi è in debito e chi è in credito.

In cosa consiste la “battaglia” della sua redazione verso i detenuti in regime di Alta Sicurezza? Quali sono gli obiettivi?
In Alta Sicurezza ci stanno i detenuti per reati legati alla criminalità organizzata, quindi “i mafiosi”, quindi quelli che non cambieranno mai, i “cattivi per sempre”. Io invece ho voluto mettere un punto di domanda nel titolo del mio libro perché sono convinta che tutti possano cambiare, ma che nessuno possa farlo da solo. Queste persone spesso hanno passato anni in isolamento quasi totale nel regime del carcere duro del 41-bis, e poi sono finite in queste “sezioni ghetto” dell’Alta Sicurezza, dove stanno fra di loro, non si confrontano con nessuno, passano anni, decenni immersi nel loro mondo. Sono uomini che vengono “dati per persi” anche dalle istituzioni. La sfida della mia redazione invece è stata di non voler “buttare via nessuno”, che poi è un’espressione non nostra, ma di Agnese Moro, di una donna che ha subito l’assassinio del padre e però non ha mai perso la fiducia negli esseri umani, nella loro capacità di capire il male fatto e di dare una svolta alla loro vita. In fondo, la cosa più disarmante anche per un delinquente è venire trattato da essere umano. Ho visto persone responsabili di gravi crimini in crisi di fronte alle domande degli studenti, ai loro sguardi, al loro bisogno di capire, persone che, avendo finalmente la possibilità di sentire altre idee, di scoprire, per esempio, la cultura, la passione della scrittura, la gratuità del Volontariato, hanno visto schiudersi davanti a sé altri mondi, e hanno cominciato a misurarsi in modo nuovo con il proprio passato. E questo è importante perché queste persone hanno figli, famiglie, e se cambiano loro, è tutto un pezzo di società che si mette in movimento, e soprattutto che comincia a mettere in discussione la subcultura di certi ambienti criminali.

Carceri, regimi, circuiti, declassificazioni, trasferimenti. Tantissime regole, strutture e trattamenti. Per lo più sconosciuti alla società che il carcere non lo frequenta. Dopo vent’anni di “vita in carcere”, da non carcerata, lei, cosa ritiene che “quelli fuori” debbano assolutamente capire, sapere, o conoscere della “vita dentro”?
Si gioca sempre troppo sulle pene, si pensa che non sono mai abbastanza dure, si sente spesso dire “solo dieci anni, solo vent’anni” perché le persone libere misurano gli anni di galera con il loro metro di misura, dieci anni di vita libera, piena di esperienze, di cambiamenti, di emozioni in fondo passano in fretta, quindi sono pochi per punire di un grave reato. In realtà, provate a prendere il giorno più brutto della vostra  vita, e moltiplicatelo per 365 giorni, quello è un anno di galera, sempre uguale, senza la speranza che succeda qualcosa, senza relazioni, senza affetti. Mi piacerebbe che la gente capisse che cos’è davvero la privazione della libertà, e che la smettesse di credere di poter essere solo la vittima di un reato, e cominciasse a capire che le potrebbe capitare anche di finire dall’altra parte, dalla parte dei colpevoli, o che ci finisse un suo caro. E poi vorrei che le persone libere immaginassero di mettersi in coda la mattina per andare a colloquio con un loro famigliare in carcere, e dopo essere state perquisite si sedessero a un tavolino con intorno altre dieci famiglie, e passassero quell’ora di colloquio sotto gli sguardi attenti di poliziotti penitenziari e cercassero di parlare e di fare un gesto di affetto e si trovassero paralizzati dalla mancanza di qualsiasi intimità: sei ore al mese, questi sono i colloqui consentiti, fanno tre giorni in un anno, tre giorni in cui uno dovrebbe mantenere vivi gli affetti di compagne, figli, genitori!

Che uomo è quello condannato all’ergastolo?
Un ergastolano è un uomo che non riesce più neppure a sognare, che non ha pressoché niente da raccontare, che non c’è mai nella vita delle persone che ama di più. Ricordo un ergastolano, entrato in carcere con la quinta elementare, che in carcere è riuscito a studiare, a laurearsi, a diventare una persona colta e competente, ma che nello stesso tempo mi raccontava di sentir crescere dentro di sé un senso di vuoto, di inutilità: ma io, si domandava, a chi potrò insegnare qualcosa, quale sapere riuscirò a trasmettere, che me ne farò della mia cultura?
Stavo meglio quando vivevo nella mia ignoranza, nel mio mondo chiuso: questo l’ho sentito dire da tanti, perché in fondo “essere qualcuno” negli ambienti della criminalità non è così difficile, e se non ti fai tante domande, se non metti in discussione il tuo passato, continui anche dalla galera a restare attaccato a quelle sicurezze, e l’unica traccia di te che lascerai è quella triste dell’appartenenza al mondo senza umanità delle organizzazioni criminali.

(toni castellano)

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