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NotizieImmigrazione, un tema "normalizzato" nei media. Ma sui social aumentano bufale e hate speech

"Notizie oltre i muri" è il nome del quarto rapporto annuale curato dall'associazione Carta di Roma, fondata nel 2011 al fine di fornire una corretta informazione sulle problematiche relative all'immigrazione. Per oltre 10 mesi l'associazione ha monitorato i principali quotidiani nazionali per analizzare la narrazione giornalistica sulle migrazioni: il dossier rivela, da una parte, un aumento delle notizie dedicate al tema sulla stampa tradizionale rispetto all'anno precedente, dall'altra, una diminuzione dei toni allarmistici. Mentre nei social network imperversano i discorsi d'odio. Per l'occasione abbiamo intervistato Martina Chichi, coordinatrice dello studio

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Notizie oltre i muri è il nome del quarto rapporto annuale curato dall’associazione Carta di Roma, fondata nel 2011 dall’Ordine dei giornalisti (Odg) e dalla Federazione nazionale della stampa (Fnsi) al fine di fornire una corretta informazione sulle problematiche relative all’immigrazione. Per oltre 10 mesi l’associazione ha monitorato i principali quotidiani nazionali per analizzare la narrazione giornalistica sulle migrazioni: il dossier rivela come nel 2016, ad un aumento del 10% delle notizie dedicate al tema sulla stampa tradizionale rispetto all’anno precedente, sia seguita una diminuzione dei toni allarmistici. Ma nei social network imperversano razzismo e hate speech (discorsi d'odio).

 Martina Chichi, tu hai coordinato lo studio: il rapporto sostiene che nelle principali testate giornalistiche, il tema immigrazione è normalizzato e non fa più notizia. Forse molte persone hanno cominciato ad accettarlo come fenomeno usuale?
No, non esattamente. È vero che nel 2016 il rapporto ha rilevato come questo argomento sia entrato a fare parte della routine nell’agenda delle redazioni dei media generalisti. Questo però non significa che faccia meno notizia, anzi: il tema delle migrazioni continua ad essere molto presente sulle prime pagine dei quotidiani italiani, addirittura più che nel 2015, quando si era registrato un incremento altissimo.
Tuttavia è una materia della quale si parla così frequentemente, che è entrata oramai a far parte della normalità. Ed è normalizzata anche nei toni: se ne parla sempre tanto in maniera costante, come se si trattasse di una routine. D’altro canto, la normalizzazione del tema nelle redazioni giornalistiche non va di pari passo con la sua piena accettazione da parte delle persone comuni. Anzi, secondo il sondaggio realizzato dall’Osservatorio europeo per la sicurezza, i cui dati sono riportati all’interno del nostro rapporto, i cittadini provano un forte senso di insicurezza legato al fenomeno della presenza dei flussi migratori. L’anno scorso avevamo registrato un aumento dell’allarmismo dei toni sulle testate, ma tale allarmismo non aveva ancora avuto un riflesso sul livello di insicurezza percepito dai cittadini. Lo troviamo invece quest’anno: vi è un aumento dei timori e delle paure legate alla presenza di immigrati.

 Se nei media non si produce hate speech, nei social molte persone usano un linguaggio violento che alimenta xenofobia e razzismo. Influisce la cattiva informazione nella “de umanizzazione” del linguaggio in rete?
Senza dubbio: i media mainstream difficilmente sono megafono diretto dell’hate speech, e difficilmente danno visibilità ai discorsi basati sull’odio. Allo stesso tempo, un’informazione su questo tema che non sia completa e corretta, talvolta anche manipolata e non in buna fede, contribuisce a creare quel clima in cui i contenuti d’odio trovano terreno fertile. Lo stesso linguaggio ansiogeno utilizzato dai media tradizionali e lo spazio che trasmissioni televisive e giornali danno ad alcuni politici che ricorrono a toni forti e all’hate speech - a volte in maniera nemmeno troppo velata - fa si che chi poi si trova sul web si senta più legittimato ad usare un linguaggio, quello dell’odio, che appare normalizzato a causa della sua presenza sui media. Perciò, se da un lato l'informazione tradizionale non è direttamente responsabile dell’uso di discorsi d’odio, dall’altro lo è per quanto riguarda il clima in cui tale linguaggio appare normalizzato.

È oramai noto come le notizie false, le“bufale”, abbiano influito sul risultato delle elezioni americane e sulla Brexit. Dopo questi avvenimenti si è aperto un dibattito pubblico incentrato sulla necessità di regolamentare le finte notizie, in particolare sui social. Pensa sia possibile?
Qui usciamo un pochino dal discorso sui media generalisti che hanno responsabilità indirette nella diffusione dei discorsi d’odio. Non ne hanno alcune, invece, nella diffusione di bufale. In questo caso i principali diffusori di fake news sono i “portali online”, che non sono testate giornalistiche, ma piattaforme che hanno lo scopo preciso di diffondere notizie false, al fine di aumentare le visualizzazioni. È un tema su cui si dibatte molto, tanto che Google e Facebook, almeno a parole, hanno voluto assumere l’impegno di aumentare gli strumenti per contrastare la diffusione di queste bugie, in seguito alle polemiche scoppiate dopo il risultato delle elezioni statunitensi. Ovviamente il percorso è lungo, ed i media tradizionali in questo non possono intervenire direttamente: devono però interrogarsi sul motivo per cui gli utenti tendono ultimamente ad essere diffidenti verso di loro, per credere invece a quelle che sono notizie diffuse da siti privi di qualsiasi credibilità. Questo è almeno il clima che si respira in Italia. E non solo. È necessario che i giornalisti si interroghino sul quando e sul come si è interrotto il clima di fiducia con gli ascoltatori e i lettori. Bisogna ricostruire questo legame per fare in modo che gli utenti vadano a cercare le informazioni su media che hanno reputazione e credibilità. E non sul web o sui social.

Tornando a parlare di immigrazione, nel rapporto si specifica come i media diano grande risalto ai politici e poco agli immigrati. Anche questo influisce sul pessimo rapporto tra grande pubblico e giornalisti, che alla corretta informazione preferiscono spesso toni allarmistici?
Dal rapporto emerge come, nel dibattito pubblico italiano sull’immigrazione, siano spesso presenti personaggi politici, e solo il 3% delle volte siano interpellati migranti e rappresentanti delle minoranze.
Quando si parla di immigrazione all’interno di talk show e programmi di approfondimento politico, gli invitati sono quasi sempre politici. Il fatto che non sia dato spazio ad altre voci fa si che il dibattito pubblico sia monopolizzato da persone che ricorrono a quel tipo di linguaggi e di diffusione di informazioni che, seppur corrette, non fa altro che alimentare quel clima di intolleranza di cui parlavamo poco fa.

Ma non hanno qualche colpa anche gli ascoltatori a fidarsi di questi programmi?
Beh gli ascoltatori sono abituati ai media anche in base a quello che questi offrono loro. Potessero usufruire di un’informazione più corretta, probabilmente accetterebbero come meno facilità la presenza unica di questi personaggi che difficilmente forniscono un contributo costruttivo al discorso.
Inoltre, il fatto che la voce dei migranti sia così poco presente è molto grave quando sui parla di tutti quegli argomenti non direttamente correlati all’immigrazione. Ad esempio per quanto riguarda i servizi e gli articoli che vengono usati dagli studenti nelle scuole: quando, a settembre, le famiglie devono sobbarcarsi la difficoltà dell’acquisto dei libri scolastici, difficilmente nei media si dà spazio alle difficoltà che deve affrontare una famiglia di marocchini o rumeni, nonostante la scuola non sia più frequentata solo da bambini italiani o di origine italiana, ma anche da bambini nati da immigrati. La scuola oramai è multietnica ma spesso la voce viene data solo a italiani: non viene rappresentata la società come è oggi, ma viene dato spesso spazio a un solo gruppo sociale. Quando la società, oramai, è più variegata e complessa.

(giacomo pellini)

 

 

In questo articolo Famiglie, Immigrazione

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