NotizieDonne e uomini contro la violenza

Come Gruppo Abele ci occupiamo da molti anni di violenza di genere, quando ancora era un fenomeno su cui l'attenzione mediatica era quasi del tutto distratta. La nostra specificità è di non essere un'associazione di genere e consideriamo questo una risorsa perché ci permette di confrontarci sul tema dell'identità di genere, delle relazioni di genere, dell'escalation del conflitto e della violenza in maniera allargata

  • Condividi

Come Gruppo Abele ci occupiamo da molti anni di violenza di genere, quando ancora era un fenomeno su cui l’attenzione mediatica era quasi del tutto distratta. La nostra specificità è di non essere un’associazione di genere e consideriamo questo una risorsa perché ci permette di confrontarci sul tema dell’identità di genere, delle relazioni di genere, dell’escalation del conflitto e della violenza in maniera allargata.

La distrazione sul tema della violenza resta purtroppo ancora alta nel nostro paese, a livello diffuso il tema della violenza sembra essere circoscritto alla richiesta di aiuto delle vittime e agli interventi a sostegno e tutela. Abbiamo campagne mediatiche che sollecitano le vittime a presentare denuncia ma poco si sensibilizza l’intera collettività a responsabilizzarsi rispetto al problema.

Per fare un esempio anche all’interno dei nostri mondi, quelli del sociale, spesso si trascura di valutare la presenza della violenza nelle biografie delle persone che si incontrano. Non sempre chi si occupa di persone tossicodipendenti, alcol dipendenti o senza dimora, per non parlare delle donne migranti, ha “gli occhiali giusti”: spesso la violenza viene vista come un effetto collaterale della vita di strada, del disagio, della migrazione e non sempre si interviene in modo tempestivo e adeguato. Lavorando in modo più consapevole forse si potrebbe risalire alle ragioni di malesseri individuali profondi proprio a partire dalle esperienze di violenza subita.

Molto si sta facendo, ci sono nuove norme, altre saranno presto varate che introdurranno nuove fattispecie di reato, aggravanti e nuove norme procedurali. Ci sono finanziamenti, mai sufficienti, ma uno sforzo è stato fatto. Tuttavia, nonostante gli sforzi, il fenomeno non è significativamente diminuito e non sarà un aggravamento della pena il deterrente principale rispetto ai reati più gravi come i femminicidi o le lesioni gravi. Sicuramente l’aspetto simbolico è importante a livello collettivo ma aumentare le pene per fenomeni che non vengono denunciati potrebbe non produrre i risultati sperati di riduzione del fenomeno.

Bisogna chiedersi se si è sulla strada giusta, se l’unico problema sia l’aumento di finanziamenti o norme più severe. Sappiamo infatti che solo una minoranza di donne si rivolge ai centri antiviolenza per chiedere aiuto. Molte di queste però non proseguono e ci sono diversi abbandoni. Forse sarebbe il momento di fare un necessario follow up per valutare l’efficacia degli interventi realizzati e chiedere alla vittime, anche quelle che hanno abbandonato i percorsi, a distanza di tempo di cosa hanno e di cosa avrebbero avuto bisogno.

Si è fatto un gran parlare, non più tardi di qualche settimana fa, intorno ai Centri antiviolenza. Più per casualità che vero interesse. Il rimpallo del primo censimento nazionale dei Cav, le liti scaturite dalle frasi di questo e di quel ministro hanno però scippato il campo alla discussione vera.
Noi abbiamo consapevolmente scelto di non costituirci come Centro antiviolenza per diversi ordini di motivi pur occupandoci di vittime da molti anni e pur essendo chiamati spesso a fare formazione sul tema.

In primo luogo non condividiamo l’impostazione obbligatoriamente “al femminile” richiesta per la costituzione e per partecipare ai bandi di finanziamento. Se è indubbio che in una prima fase sia indispensabile che l’accoglienza sia svolta da una donna (anche e soprattutto sarebbe auspicabile in sede di denuncia) ci sembra invece che nelle fasi successive, che possono durare anni, sia fondamentale anche la presenza di operatori maschi per avere la possibilità di un confronto tra generi equilibrato e alternativo ai modelli che spesso hanno dominato la vita delle vittime.

Un altro elemento su cui abbiamo una posizione diversa è rappresentato dalla mediazione. Il recepimento nella nostra normativa della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul) ha visto un irrigidimento a nostro avviso eccessivo rispetto allo strumento della mediazione. Infatti mentre la Convenzione di Istanbul chiede agli Stati di non prevedere l’introduzione della mediazione obbligatoria nel processo in tema di maltrattamento o reati connessi c’è stata una forte pressione da parte delle associazioni storiche affinché la mediazione familiare fosse bandita da qualsiasi intervento in tema di maltrattamento anche in sede extragiudiziale. Anche in questo caso è evidente come la mediazione non possa essere utilizzata nelle situazioni di agiti violenti o dove c’è un forte squilibrio di potere nella coppia. Tuttavia un’esclusione tout court ci sembra insensata dal momento che la mediazione è un ottimo strumento per contenere l’escalation dei conflitti e dunque nei casi in cui è praticabile potrebbe essere uno strumento di prevenzione molto utile. Non dimentichiamo poi che nei casi in cui non vengano ravvisati dalla magistratura profili di pericolosità tali da giustificare misure restrittive spesso la coppia dovrà continuare a comunicare ad esempio per i figli, per proprietà comuni, faccende familiari. Essere accompagnati da mediatori per affrontare questi problemi rappresenta a nostro avviso uno strumento di tutela non indifferente.

Tutte queste riflessioni vanno nell’ordine di evitare la passivizzazione della vittima di violenza, un rischio molto alto per persone che spesso per anni sono state oggetto di interventi di “decostruzione “dell’autostima e dell’autonomia da parte del partner. Ci sembra opportuno non scegliere al posto della donna che cosa sia meglio per lei ma lasciare ad ognuna la possibilità di decidere.

Occorre a nostro parere lavorare a livello collettivo su due binari paralleli. Da un lato quello dell’intervento specialistico, effettuato da operatori sociali formati sui temi dell’accoglienza e della relazione tra i generi e dal mondo della giustizia. Dall’altro a livello sociale occorre ripensare alla comunicazione sul tema della violenza che spesso veicola un’immagine di vittima e di autore di violenza in cui non si riconoscono né l’una né l’altro.

Promuovere una rivoluzione culturale per superare gli stereotipi di genere che purtroppo ancora oggi resistono nonostante, o forse proprio per questo, la società e i generi stessi siano in profondo cambiamento. Perché se è vero che la violenza sulle donne è sempre esistita è pur vero che in ogni epoca ha un suo significato. Forse affrontandone il “senso” (insensato) del nostro tempo potrebbe aiutare a combatterla e ridurla in modo significativo.

Per questo, accanto ai percorsi istituzionalizzati (centri antiviolenza) ci sembra utile che sia garantita la possibilità di provare strade alternative per riflettere sulla violenza a partire dalle sue varie forme. Su un tema così complesso è evidente che non possa esistere un “pensiero unico” e che solo con un confronto allargato si possa provare a ipotizzare qualche risposta. Come si diceva all’inizio noi non siamo una associazione di genere e questo ci ha permesso in questi anni di incontrare gli autori di violenza ma anche le vittime di genere maschile nonché il fenomeno della violenza all’interno delle coppie omosessuali. Le modalità, le forme e le “letture” della violenza in questi contesti non sono così differenti tra loro, quello che emerge prepotentemente è la necessità di riflettere sulle relazioni, sulle aspettative, sulla solitudine.

In ultimo occorre più cura della sicurezza, quella vera e non quella strumentalizzata a fini elettorali, attraverso la prevenzione degli agiti violenti a livello collettivo. Fare un lavoro capillare che chiami in causa tutti e tutte ad essere sentinelle che possono intercettare segnali di richiesta di aiuto da parte di vittime silenziose.

Ad esempio si è poco parlato a margine del dibattito sulla nuova normativa sulla legittima difesa dell’aumento del rischio rappresentato dalla presenza delle armi in casa. Eppure tra gli indicatori dei fattori di rischio che fanno temere per la vita di una vittima di violenza di maltrattamenti ai primi posti si trova proprio il possesso di armi. Si tratta allora di perseguire una coerenza di obiettivi e di priorità e di lavorare insieme, uomini e donne, per uscire dalla violenza.

(ornella obert, referente Area Immigrazione e Vittime Gruppo Abele)

Cosa facciamoDa sempre accanto agli ultimi