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NotizieLa "massima" sicurezza in carcere per la salute delle persone recluse

"La perdita del diritto alla libertà, con cui si materializza la pena inflitta al condannato, non comporta la sottrazione di altri diritti: alla salute e alla vita, che non possono essere pregiudicati dalla mancanza e dall'insufficienza dei presidi sanitari che la garantiscono", il ragionamento di Leopoldo Grosso, presidente onorario del Gruppo Abele

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In tempi di Coronavirus la massima sicurezza di un carcere assume tutt'altro significato: si prefigge la priorità di proteggere la salute delle persone recluse. La perdita del diritto alla libertà, con cui si materializza la pena inflitta al condannato, non comporta la sottrazione di altri diritti: alla salute e alla vita, che non possono essere pregiudicati dalla mancanza e dall'insufficienza dei presidi sanitari che la garantiscono. Là dove ci sono persone ammassate in luoghi chiusi, la diffusione del virus trova l'ambiente più favorevole per il contagio. Ciò che è successo nelle strutture per l'assistenza agli anziani insegna. Una lezione di cui non avremmo dovuto avere bisogno.

Affollamento. Il sovraffollamento costituisce l'handicap storico delle carceri italiane, ed è il principale ostacolo alla sicurezza. Non solo sotto il profilo sanitario. Le teorie etologiche sulla mancanza di spazi personali e di privacy, sul nesso frustrazione/aggressività sono note da tempo. Il distanziamento sociale, la regola tanto raccomandata a cui attenersi, l'unica valida per proteggersi dal contagio, è inattuabile in carcere. In celle da 12 metri quadri per 4 detenuti, con un solo water, non c’è possibilità di difesa.
Bisogna de-affollare, de-agglomerare, dis-aggruppare, defluire, sfoltire, sparpagliare. Ma quanto è possibile creare reparti covid in carcere, fare spazio a luoghi di isolamento per la protezione sanitaria, e attuare la disposizione “una persona positiva al virus per cella, con bagno riservato”, senza ammassare ulteriormente tutti gli altri in posti più esigui? Non siamo né in Svezia, né in Norvegia, purtroppo.

Alleggerimento della pressione. La soluzione appare semplice: diminuire l'afflusso, aumentare il deflusso. Si tratta di selezionare e limitare gli ingressi, favorire e accelerare le uscite. Una scelta di questo tipo ha bisogno di coraggio politico. Non può essere subordinata ai timori di un’opinione pubblica già in ansia per il contagio del virus. Il decreto Cura Italia, prevede un differimento pena attuato tramite la reclusione domiciliare per chi deve scontare fino a 18 mesi. Nella realizzazione della misura si annidano tre ostacoli che restringono gli orizzonti del provvedimento e imbrigliano le maglie che si vorrebbero invece allargare: a) la preclusione all'acceso per cosiddetti reati ostativi, considerati di per sé, a prescindere dai singoli detenuti e dal decorso pregresso della pena; b) la necessità di un domicilio ritenuto idoneo, che penalizza la stragrande maggioranza dei detenuti stranieri marginali; c) l'applicazione di braccialetti elettronici obbligatori per chi ha da scontare più di 6 mesi, la cui cronica limitata disponibilità, oggi accentuata dal fermo produttivo, tratterrà in carcere anche chi è in possesso di tutti gli altri requisiti del decreto.
Nei fatti, si stima che potranno fruire del provvedimento solo alcune centinaia di detenuti, molti meno di quanti già i giudici di sorveglianza e dei tribunali abbiano predisposto con il maggiore utilizzo delle misure alternative ordinarie e il minor ricorso alla detenzione preventiva. Si deve alla loro autonoma iniziativa il calo delle presenze in carcere: dai 61.235 del 28 febbraio ai 56.102 del 10 marzo. A fronte comunque di un limite di capienza ufficiale complessiva, che, è sempre doveroso ricordare, non dovrebbe superare 47.482 posti ordinari. Si valuta che se il decreto avesse comportato un tetto di pena residua di 36 anziché 18 mesi, in linea teorica i beneficiari potevano consistere in ben 22.374, quasi un terzo della popolazione carceraria, con un decisivo effetto sul sovraffollamento.

Garantire la comunicazione con l'esterno. Per l’ambiente carcerario l'unico distanziamento a oggi effettivamente attuato e portato automaticamente a regime è quello dai familiari a cui vengono precluse le visite e dal volontariato carcerario a cui sono impedite le attività. Poter comunicare con l’esterno diventa vitale. È doveroso che la pena suppletiva dello stop alle visite e del divieto di accesso al volontariato penitenziario, vengano compensate, già in fase uno dell'epidemia, con un grande sforzo aggiuntivo nella comunicazione digitale e telefonica. È una delicata equazione, tra ciò che viene sottratto e ciò che bisogna aggiungere ma un comportamento istituzionale rispettoso, non prevaricatorio, richiede che la somma algebrica debba risultare zero. L'investimento richiesto in dispositivi comunicativi telematici con l'esterno, di facile fruibilità ed accessibilità, ha l'obiettivo di implementare il volume di opportunità, non solo rispetto al collegamento con i familiari, ma anche per la didattica, la conduzione di attività e il sostegno psicologico online. Lo sforzo dell'investimento richiesto costituirà un patrimonio la cui utilità andrà oltre l'emergenza, ampliando le possibilità di rapporto tra carcere e società.

La protezione degli agenti di polizia penitenziaria. Infine, proteggere gli agenti di polizia penitenziaria e tutto il personale del carcere dal rischio del contagio costituisce la misura preventiva preliminare. Preservarli dalla possibilità di essere infettati all'esterno, significa proteggere i detenuti dal contagio all'interno. Ciò significa la sanificazione degli ambienti collettivi in cui gli agenti dimorano, la dotazione delle necessarie mascherine, la fruibilità continua e tempestiva di tamponi, la possibilità di quarantena in luoghi attrezzati, la possibilità di supplire gli agenti che risultano positivi. Un'attenzione privilegiata nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria, li mette in grado di proteggere meglio i loro detenuti.

Insomma, come detto sopra, servono scelte politiche coraggiose. Anche e a maggior ragione se dirette verso coloro che il resto della società tende a dimenticare perché giudicati colpevoli. Tenendo conto che il virus e il contagio non si fermano davanti al giudizio dei tribunali.

(leopoldo grosso, presidente onorario del Gruppo Abele)

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