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NotizieL'emergenza casa e il diritto alla dignità

Roma è la capitale dell'emergenza casa: 9000 persone in attesa di una casa popolare, 30 mila famiglie in emergenza abitativa, 20 mila sfratti in esecuzione, 6 mila famiglie costrette a occupare, 5 mila ospitate presso i residence del Comune. Il 90% delle sentenze emesse è per morosità incolpevole

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A Roma lo scorso 10 maggio una ventina di occupanti di Via Santa Croce in Gerusalemme ha deciso di iniziare uno sciopero della fame per la dignità dei senza casa. Rivendicano il diritto ad una vita dignitosa. Sono stufi di essere trattati come “scarti” e si battono per il diritto alla casa per tutti coloro che si trovano oggi in situazione di difficoltà e di fragilità.
Roma è la capitale dell’emergenza casa: 9000 persone in attesa di una casa popolare, 30 mila famiglie in emergenza abitativa, 20 mila sfratti in esecuzione, 6 mila famiglie costrette a occupare, 5 mila ospitate presso i residence del Comune. Il 90% delle sentenze emesse è per morosità incolpevole. Un problema generalizzato nel paese: secondo Nomisma 1,8 milioni di famiglie rischiano di diventare morose. Davanti a questi dati il Commissario Tronca ha recentemente firmato la cosiddetta delibera 50, stravolgendo gli sforzi fatti dalla Regione Lazio e dal presidente Zingaretti per promuovere un Piano Straordinario sull’emergenza abitativa che desse risposte finalmente a decine di migliaia di persone. La delibera comunale di Tronca annuncia invece sgomberi e nessuna soluzione per migliaia di famiglie precarie, sotto sfratto o già sfrattate. Secondo il commissario prefettizio i poveri non hanno diritto a un tetto: l’emergenza abitativa non c’è o quantomeno non interessa l’istituzione. Ma davvero non interessa l’istituzione se tra qualche mese 40 mila persone finiranno per strada nella capitale d’Italia? Davvero non riguarda tutti noi se il 90% dei morosi non è più in grado di pagare a causa della crisi, della precarietà, della disoccupazione e dell’aumento degli affitti? Il Commissario invece annuncia sgomberi senza costruire alternative al marciapiede per migliaia di famiglie, non ne hanno diritto dice, e sempre in nome della legalità da seguito ad un’altra delibera, la 140 voluta da Marino, con l’obiettivo di vendere alcune strutture comunale per fare cassa e rientrare sul debito della città. Dal Documento Unico di Programmazione apprendiamo che dalla svendita del patrimonio comunale saranno ricavati circa 12 milioni di euro all’anno per i prossimi tre anni, a fronte di un debito di 12 miliardi. Se l’obiettivo è ripianare il debito vendendo il patrimonio pubblico evidentemente non è questa la strada da percorrere.

Ma non solo: quello che è ancor più grave è che la delibera 140 punta a sgomberare strutture ed associazioni che a Roma hanno svolto e svolgono un lavoro sociale e culturale di fondamentale importanza per tutti, garantendo servizi, assistenza, cure e ascolto per le figure più fragili e deboli, contrastando diseguaglianze, mafie e corruzione, tenendo vivo il senso profondo di una comunità umana, generosa e accogliente. Come il caso del Grande Cocomero, il centro riabilitativo di neuropsichiatria infantile a San Lorenzo che rappresenta un’esperienza unica e di enorme utilità ed efficacia, o le palestre popolari sparse per la città dove si insegnano i valori dello sport che hanno salvato dalla criminalità e dall’esclusione sociale migliaia di ragazzi, e così in tanti altri spazi sociali oggi a rischio sgombero. Quanto vale tutto questo? Molto di più dei 12 milioni che una volta incassati segneranno la perdita definitiva per la città di esperienze di valore incommensurabile in termini sociali, economici, culturali. Fu la giunta Rutelli a proporre un canone sociale per queste realtà così importanti per la città e che, proprio perché sganciate dalla logica di mercato e di competizione, sono state in passato riconosciute come fondamentali per la vita della città. Ed invece la logica con cui il commissario Tronca si pone è esclusivamente quella di mercato, tralasciando qualsiasi altro tipo di valutazione.
Due delibere, la 50 e la 140, che rendono non solo la vita impossibile ai poveri ed alle realtà impegnate a contrastare le diseguaglianze, ma che minano le fondamenta della nostra idea di civiltà costruite sui i principi ed i dettami della Costituzione. Queste delibere tradiscono un approccio culturale che viaggia in direzione opposta e contraria a quanto stabilito dalla Carta, che “obbliga” la Repubblica a rimuovere gli ostacoli e garantire quei diritti sociali fondamentali per rendere “intangibile”, quindi concreta, la Dignità umana. Ledere la dignità umana costituisce quindi la più grave illegalità costituzionale. La cultura di Tronca invece, come quella del governo nazionale, tradotta nero su bianco in documenti ufficiali, si fonda “sull’universalismo selettivo”. Quello che per molti è un ossimoro, diventa oggi il motore della propaganda culturale con il quale ci apprestiamo ad uscire dalla crisi. L’idea di universalismo che pregna la nostra Carta, come quella Europea, viene di fatto archiviata in nome delle compatibilità finanziarie e delle necessità di bilancio definite dalle politiche di austerità. Il mantra di fondo da anni: le spese sociali sono un costo che non ci possiamo più permettere e che oggi non vogliamo più garantire per tutti quelli che ne hanno diritto. È questa la novità: ce lo dicono apertamente e lo scrivono nei documenti ufficiali. E’ quanto stabilito ad esempio con il DDL del governo per contrastare la povertà. Viene stanziato nemmeno un miliardo di euro nonostante gli italiani in povertà assoluta (triplicati negli ultimi 7 anni, così come sono triplicati il numero dei miliardari!) siano 4,5 milioni. Una cifra palesemente insufficiente persino per il governo. Basandoci infatti su quanto prevedono la Costituzione, le risoluzioni europee e l’articolo 34 della Carta di Nizza che stabilisce il livello di vita sotto il quale non scendere per non vedere violata la propria dignità, ci vorrebbero almeno 15 miliardi di euro per finanziare politiche efficaci per restituire dignità a quanti l’hanno persa. Ma l’ulteriore pretesa di chi governa è quella di voler imporre a tutti quanti non ne condividono le scelte di adeguarsi ed adattarsi alla nuova realtà. Ma adeguarsi significa abdicare sui diritti sociali e sulla loro valenza; significa accettare la guerra del povero contro il più povero; significa ignorare che se non sarà la Repubblica a fare giustizia sociale ci penseranno le mafie a colmare quel vuoto, garantendo lavoro, welfare e sicurezza per i propri affiliati; significa abdicare all’idea di civiltà fondata sulla intangibilità della dignità umana ed accettare una società in cui ceti medi e popolari saranno sempre ai margini e la mobilità sociale inesistente; significa accettare la rottura della coesione sociale ed uno modello di sviluppo insostenibile. Ma soprattutto significa rinunciare alla solidarietà che guida da sempre i momenti dell’evoluzione della nostra specie che, come tutte le altre, se non coopera è destinata a scomparire. Varrebbe la pena ricordare una delle pochissime regole certe alla base della vita: è la cooperazione che ci consente di evolverci e svilupparci, e non la competizione. Per questo non possiamo, non vogliamo e non dobbiamo adeguarci a quanto ci viene imposto.

La povertà è la più grande delle illegalità e non ha senso richiamare il valore della legalità quando le leggi fatte sviliscono i più deboli, offendono i principi costituzionali e producono ingiustizie sociali ed ambientali invece che sanarle. A Roma si stanno costruendo muri per tenere fuori i poveri e nascondere le enormi diseguaglianze che attraversano la nostra società. Per questo continuiamo ad impegnarci, fuori dalla morsa delle paure e delle tattiche, schierandoci al fianco di chi difende la Dignità e la Giustizia Sociale a partire dalle vittime e dalle figure più fragili. Ed invitiamo tutti a fare altrettanto. “Non c’è bisogno di andare a Idomeni, in Grecia, per vedere i drammi dei muri che separano chi governa dai poveri”, mi diceva uno dei ragazzi romani che ha iniziato lo sciopero della fame. Una frase durissima, ma drammaticamente vera nella capitale del nostro paese, così come in tante altre nostre città.
In una città che è stata sfregiata dai Casamonica e da Mafia Capitale, in cui 30 mila bambini sono nella povertà assoluta, un terzo della popolazione è a rischio povertà e 40 mila persone potrebbero finire per strada, la priorità sta nell’impegno per la giustizia sociale, nel contrasto alle disuguaglianze, alle mafie ed alla corruzione. La nostra proposta è che si ritirino subito le delibere 140 e 50, si apra un tavolo di confronto e si ritorni a mettere al centro la necessità di rilanciare le politiche sociali come strumento fondamentale per contrastare diseguaglianze, mafie e corruzione, riconoscendo come indispensabili alleati in queste battaglie proprio quelle reti sociali oggi attaccate e marginalizzate, che rappresentano invece la più grande risorsa della nostra città.

(giuseppe de marzo, coordinatore nazionale di Miseria Ladra - Campagna promossa da Gruppo Abele e Libera e da migliaia di realtà sociali e del volontariato)

In questo articolo Lotta alla povertà

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