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NotizieMemoria è vita non protocollo

Abito a pochi isolati dal Cimitero Monumentale di Torino, eletto nei periodi di lockdown "morbido" meta preferita delle passeggiate coi miei bambini. Niente affollamento - "qui sì che non c'è anima viva", scherzavamo – niente auto, e tante storie da raccontare lungo i viali. Il figlio grande, che aveva lavorato a scuola sulla Gionata della Memoria, mi ha chiesto di visitare la sezione ebraica. Abbiamo sostato davanti alla tomba di Primo Levi, esplorato le lapidi sconnesse della porzione più antica, addossata contro le prime mura, e osservato il ricorrere di alcuni cognomi. "Ci sono tanti Segre, mamma, come Liliana Segre a cui stavamo scrivendo una lettera in classe". Lo ha voluto raccontare via mail al suo maestro. Buon segno!, ho pensato. Si vede che queste ricorrenze, se ben affrontate, servono a pure qualcosa… Si vede che le testimonianze di valore fanno presa.

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Abito a pochi isolati dal Cimitero Monumentale di Torino, eletto nei periodi di lockdown “morbido” meta preferita delle passeggiate coi miei bambini. Niente affollamento - “qui sì che non c’è anima viva”, scherzavamo – niente auto, e tante storie da raccontare lungo i viali. Il figlio grande, che aveva lavorato a scuola sulla Gionata della Memoria, mi ha chiesto di visitare la sezione ebraica. Abbiamo sostato davanti alla tomba di Primo Levi, esplorato le lapidi sconnesse della porzione più antica, addossata contro le prime mura, e osservato il ricorrere di alcuni cognomi. “Ci sono tanti Segre, mamma, come Liliana Segre a cui stavamo scrivendo una lettera in classe”. Lo ha voluto raccontare via mail al suo maestro. Buon segno!, ho pensato. Si vede che queste ricorrenze, se ben affrontate, servono a qualcosa… Si vede che le testimonianze di valore fanno presa.

Per la figlia piccola invece il cimitero è diventato “il giardino di Luca”: Luca Lucioni, vecchio amico del Gruppo Abele, al quale portavamo sempre un fiore con tanti petali sottili, come quelli che dipingeva lui. Anche Luca, pensavo, è stato a suo modo un testimone. Il portatore di un vissuto individuale e insieme collettivo, tragico e in parte epico, del quale la memoria è ancora tutta da costruire. Lui era un testimone parsimonioso di parole, ma a me, che quel tempo l’avevo soltanto sfiorato, la sua presenza discreta e la sua devozione al Gruppo dicevano comunque tanto.

La testimonianza è nelle orecchie di chi ascolta più ancora che nei discorsi di chi la incarna. È nel come più ancora che nel cosa, nella scelta accurata, sofferta delle parole: quelle pronunciate e quelle, non sempre conformi, che vanno a sedimentare nell’ascoltatore. È lì che si genera la memoria, come prodotto relazionale e non semplice trasmissione di un sapere dal testimone a chi non c’era. Fino al paradosso che persino una testimonianza ingannevole può alimentare una memoria autentica, come accaduto in passato con dei finti sopravvissuti alla Shoah, capaci di suonare credibili e suscitare emozioni nel raccontare vicende delle quali non avevano alcuna esperienza diretta. Ne parla Javier Cercas ne L’impostore, ma anche la cronaca italiana recente.

Mi sono trovata spesso a stanare e decifrare le memorie di altre persone, con l’intento di renderle fruibili per un pubblico di lettori. Ho incontrato memorie riluttanti e memorie generose, memorie affaticate e memorie più vivaci della vita stessa che le aveva generate. Ho sperimentato l’inattendibilità delle memorie più sicure, sulla quale s’interroga Julian Barnes con Il senso di una fine (un romanzo che io non ho letto, eppure per specifiche ragioni mi ricordo). Prima che potessero prendere la forma della testimonianza scritta, quelle memorie individuali hanno dovuto trasformarsi in memoria collettiva, sebbene di una collettività piccolissima, fatta da me e dal loro “detentore”. Ho visto allora testimoni stupefatti, nel constatare che io in effetti sapevo “di più” di quanto mi avevano raccontato.

Ecco, per me la memoria non può definirsi tale se non raggiunge quel “di più”, se non scarta dal reale per annusare la dimensione dell’universale e del simbolico.

Ricordo il fastidio imbarazzato che, negli anni scorsi, mi suscitavano certe iniziative legate appunto alla Giornata della Memoria. O meglio non le iniziative in sé, ma tutto il corollario retorico che le circondava, con associazioni apparentemente simili, ma sottilmente conflittuali, che si sfidavano a colpi di numeri e buone intenzioni, dopo una lotta chissà quanto serrata per accaparrarsi l’auditorium con più posti, o il treno con più vagoni. Senza mettere in dubbio la preparazione e passione civile dei promotori, mi chiedo a che valga enfatizzare le “facce attente” e la “commozione” delle moltitudini, quando è chiaro che ciascuno degli adolescenti coinvolti sta cogliendo – o non cogliendo – l’opportunità a modo suo. E sarà attraverso quel modo unico di ascoltare – o non ascoltare – una testimonianza, di soffrire – o non soffrire – visitando un campo di concentramento, che parteciperà alla memoria collettiva.

Dell’articolata riflessione di Valentina Pisanty – che condivido in gran parte – mi piace soprattutto il coraggio di uscire dai canoni, di porsi in maniera “disturbante” su un tema che si vorrebbe invece impermeabile al dissenso. Apprezzo la critica implicita al “dovere” della memoria imposto dai suoi “guardiani”, che in questi giorni occhieggiano a Torino da manifesti a lettere cubitali: “27 gennaio, Giorno della Memoria”: ci ricordano di ricordare!

Contro il dovere della memoria, possiamo aspirare a un volontario, impegnativo esercizio della stessa. E quest’esercizio sarà tanto più prezioso quanto più “disturbanti” saranno le sue premesse; tanto più facile quanto più disagevoli le circostanze in cui lo metteremo in atto.

Ecco allora ad esempio che la mia personalissima memoria sulle vittime innocenti delle mafie si è esercitata assai più efficacemente nel freddo umido di un’alba al porto di Gioia Tauro, che non sull’assolato lungomare di Bari. Nell’indecifrabile trama urbanistica della periferia di Potenza, o nell’ostilità dei bar di Casal di Principe svuotati di tavoli e sedie (!), che non nell’accoglienza un po’ ingessata di Milano. Difficile invece dire se la mia memoria dell’Olocausto abbia faticato di più fra le baracche di Mauthausen – dove pure sentiva l’eco di un consolante “ora sono nel vento” – o fra le pagine de L’istruttoria di Peter Weiss, che di consolante hanno soltanto gli spazi bianchi al fondo dei capitoli.

Mentre passeggiavo accanto ai miei bambini al Monumentale, col sollievo per la fine della reclusione domestica e la gioia di vederli così belli e vitali, mi domandavo se i nostri passi svelti, spensierati, non fossero in qualche modo irrispettosi verso i tanti lutti recenti che il cimitero aveva accolto senza neppure il conforto di un rito. Invece forse quel nostro essere lì, e non altrove, era già un tentativo di fare memoria. O perlomeno di fare i conti con gli eventi inediti appena vissuti, che, pur senza averci toccati tragicamente da vicino, ci avevano fatti sentire per la prima volta parte di una tragedia collettiva. Sarà stato per questo, o perché appunto ho inclinazione per le memorie simboliche, che condensano vita, testimonianza e letteratura rivelandone i labili confini, ma quando ci è capitato di incrociare un piccolo corteo funebre, anche a me improvvisamente “dispiacque di non avere berretto”.

(cecilia moltoni, ufficio comunicazione Gruppo Abele)

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