NotizieDopo la lunga notte arriva il ministro della Costituzione

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Un raggio di sole precocemente primaverile si è fatto faticosamente strada nel buio delle celle, rese più cupe e sigillate dalla pandemia in corso: un lungo periodo che, se è stato faticoso per tutti e tragico per molti, per i carcerati lo è stato ancora di più. Anno infausto, in senso proprio.

Quell’inedita intuizione di luce ha un nome e cognome, Marta Cartabia, una storia che parla per lei e che ora contribuisce a rafforzare la speranza, senza la quale in carcere non si può vivere, o sia pure sopravvivere.

Nella loro cruda obiettività ce lo ricordano - e ce n’è sicuramente bisogno, per provare a incrinare la tenace indifferenza e il roccioso populismo penale - le cifre fornite dall’Amministrazione Penitenziaria,riprese e analizzate nell’ultimo Rapporto dell’Associazione Antigone: il 2020 ha toccato un record di suicidi tra i reclusi. Sono molti, 61, quelli che hanno deciso di non sopravvivere nei mesi che abbiamo alle spalle. Uno di loro aveva ottant’anni. Sono in effetti molti, e in numero crescente, i detenuti anziani: al 31 dicembre 2020, 851 avevano più di 70 anni, alcuni persino nel regime di carcere duro (più esattamente definibile terrificante) del 41bis. Solo 15 anni fa erano meno della metà (350) e anche questo è un indizio di un incrudelimento delle pene e della centralità raggiunta da quella reclusiva, per giunta a tassi di criminalità da tempo decrescenti.

Che un ottantenne si trovi - e decida di uccidersi - in cella, per giunta nel dilagare del Covid, rende ancora più difficile comprendere il senso e l’utilità di detenzioni che non servono certo a proteggere la società. Somigliano semmai a ritorsioni sociali, come ebbe a rimarcare papa Francesco e, prima di lui, il suo predecessore Giovanni Paolo II, nell’anno del Giubileo. Anno della grande speranza di clemenza, andata delusa per la sordità di un parlamento che pure non esitò, con incoerenza, ad applaudire la richiesta di indulgenza del pontefice. Delusione storica, che vide il contraccolpo del precedente record di suicidi.

Un terzo picco delle morti in cella è stato poi nel 2018 e, di nuovo, è difficile pensare a un caso, se ricordiamo che in quell’anno venne colpevolmente cestinato il lungo e proficuo lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale, che avrebbero dovuto sfociare in una complessiva riforma del carcere. I progetti legislativi messi a punto vennero, invece, all’ultimo archiviati da un governo preoccupato dal possibile calo di consensi alla vigilia della tornata elettorale.

Oltre ai 61 e ai deceduti per cause naturali, tra cui il Covid, vanno aggiunti nel triste bilancio quei 13 sulla cui morte, avvenuta durante le proteste del marzo scorso e in alcuni casi persino dopo o durante il trasferimento, ancora non è dato di conoscere verità convincenti e inequivoche, come sempre dovrebbe essere allorché muore una persona sotto custodia dello Stato.

Una necessità di trasparenza e legalità ancor più stringente quando il numero dei morti, come in quel caso, è inusitato nella moderna storia carceraria, tanto da dover parlare di vera e propria strage. Un solo precedente vi si avvicina: quello delle undici vittime, nove detenute e due vigilatrici, rimaste uccise nell’incendio che il 3 giugno 1989 distrusse il padiglione femminile del carcere Vallette di Torino. Un tragico evento, non senza responsabilità, di cui si è trascurata la memoria.

Detenere una persona non risponde solo alle prerogative e pretese punitive dello Stato, che al momento sembrano indiscutibili, anche se per fortuna rimane sempre accesa la fiammella di quelle culture che auspicano si arrivi a liberarsi dalla necessità del carcere. E chissà che a queste si richiamino pure le aspirazioni del nuovo ministro di Giustizia. Il cui dicastero, dopo decenni, con lei potrebbe finalmente recuperare, se non nel nome nella sostanza, anche la Grazia.

Disporre della libertà, e dunque della vita, di decine di migliaia di uomini e donne comporta anche precisi doveri e responsabilità. Che in questo - ma in molti altri casi - appaiono disattese.

Ecco che allora la pena reclusiva, con l’arrivo di Marta Cartabia, potrebbe cessare di somigliare alla ritorsione per farsi processo di ricucitura e di recupero. Ai sensi e nel rispetto, finalmente, della Costituzione.

(sergio segio)

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