NotizieDroga, il "rimosso" che sempre torna

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Nel 1974 il Gruppo Abele aprì la prima comunità di accoglienza per tossicodipendenti in Italia. E anche tanti sacerdoti e suore “di strada” iniziarono a prendersi cura delle vittime di questa piaga sociale. Testimonianze autentiche del Vangelo, con un modello rudimentale d’accoglienza costruito sull’amore per i derelitti e il contributo dei volontari. Ma in quegli anni emergeva con lo stesso obiettivo anche un laico, protagonista oggi di SanPa in onda su Netflix: Vincenzo Muccioli.

Ho visto la docu-serie diretta da Cosima Spender tutta in una volta, cinque ore di fila, appena uscita. Tra quelli che raccontano le luci e le ombre di San Patrignano emerge la testimonianza di Fabio, oggi vicepresidente del Gruppo, che attribuisce il grande successo della serie al fatto di raccontare la complessità di quella storia. Come una tragedia di Shakespeare, dove c’è l’amore, il potere, la morte, la vendetta, insomma tutto l’umano: un meraviglioso specchio in cui riconoscersi.

Anch’io mi sono rispecchiato in quella realtà. Perché ho vissuto per 15 anni in una comunità, anche se di natura diversa, fatta di maschi, di regole e tabù, di tavolate, di punizioni e divieti, di turni, di gioco e lavoro, di studio e meditazione. Avevo 10 anni nel 1989 quando i miei genitori mi portarono in seminario per evitare che prendessi “cattive strade”, ero un ragazzo vivace e mi piaceva trascorrere molto tempo all’aperto. Proprio in quegli anni ho sentito parlare per la prima volta del Gruppo Abele e ricordo le visite alla comunità di recupero Fanelli, oggi azienda che esporta un’eccellenza come il provolone del monaco, fatto dai ragazzi ospiti. La maggior parte dei genitori italiani di allora era spaventata dal fenomeno droga e credeva che una buona mazziata, per dirla in napoletano, fosse un metodo legittimo ed efficace. E quindi anche rinchiudere un figlio per impedirgli di drogarsi. Non c’è da stupirsi, allora, che molte famiglie abbiano ritenuto efficaci le maniere forti applicate talvolta a San Patrignano. La cosa triste è che ancora oggi siano in tanti a considerarle tali. Perché, oggi come ieri, sono numerosi e disperati i papà e le mamme che implorano aiuto per i figli tossicomani.

Bussano al civico 95 di corso Trapani, sede del servizio di Accoglienza del Gruppo. Spesso arrivano entrambi i genitori, a volte mamme sole o padri con sensi di colpa per la propria inadeguatezza educativa. Me lo ha confidato Marco, quando ha accompagnato le due figlie, prima Laura e poi Carla. Entrambe giovanissime, studentesse, vestite bene. Bevono alcolici, fumano hashish, qualche volta crack, assumono pasticche per farsi dei trip e una anche eroina finché un’overdose l’ha convinta a desistere. Non vorrebbero smettere, ma imparare a gestire le droghe, perché, dicono, "tutto sommato ci vogliamo godere la vita". Il loro non è desiderio autodistruttivo ma disperato bisogno di sopravvivenza.

Oggi i tossicodipendenti sono diversi da quelli di un tempo: non vedi più zombie che camminano o reietti che si bucano nel parco. La coca non è più la droga dei ricchi, con pochi euro puoi acquistare una dose di eroina e le canne non le fumano più gli sfigati. La maggior parte degli adolescenti che incontriamo fumano canne e vendono fumo. Il mercato delle droghe è in continua espansione, non si fa in tempo a conoscerne una nuova che ne esiste già un’altra in circolazione.

Ci accorgiamo dunque dei cambiamenti, ma è evidente un comune denominatore: la fragilità. Erano fragili i tossicodipendenti di ieri e sono fragili quelli di oggi, come fragili sono chi li accompagna. E proprio l’emergenza Covid ci ha fatto riscoprire questa condizione esistenziale. Siamo tutti fragili e nessuno si salva da solo. Le droghe rimangono sintomo di vissuti ansiosi, di false identità, di cuori induriti e chiusi, di tentativi di fuga da situazioni angoscianti, di strutture della personalità inclini alla dipendenza. Spesso gli adulti che incontriamo preferiscono identificarsi con il problema che li caratterizza, sintomo della propria fragilità e si presentano come cocainomani, eroinomani, giocatori d’azzardo. Sono ripiegati sul problema e incapaci di guardarsi dentro, di riconoscersi nella loro complessità. Cura e trattamento consistono nell’aiutare le persone a leggere la loro vita, elaborare le sofferenze, accettare i propri limiti e valorizzare le proprie risorse. È solo in quel momento che la fragilità si trasforma in forza, per noi stessi e per gli altri. Cosa sarebbe la condizione umana privata della fragilità e della sensibilità? Sarebbe incompleta, mancante della sua essenza.

Oggi finalmente si parla di nuovo, nel dibattito pubblico, di droghe e di mafie, che dal narcotraffico percepiscono il maggiore introito. E nelle ultime settimane sono riprese con forza le richieste di aiuto rivolte alla nostra Accoglienza da parte dei diretti interessati. Il servizio è cambiato rispetto al passato, ma il Gruppo rimane una porta aperta sulla strada, un punto di riferimento per le dipendenze, e anche per le famiglie dei ragazzi ritirati e per coloro che vivono il dramma della malattia psichiatrica.

L’incontro è individuale, ma spesso anche di coppia e familiare. In presenza, con tutti i protocolli anti Covid, perché lo riteniamo essenziale per la relazione d’aiuto: il linguaggio del corpo e spesso più comunicativo di quello verbale. La tensione che ci accompagna, insomma, è di essere come sempre presenti sulla strada, intercettare domande d’aiuto e inventare nuove modalità di “aggancio” in uno scenario politico fermo al 1990. Ad allora risale infatti il testo unico sulle dipendenze, la nota legge Vassalli-Jervolino. I governi hanno approvato leggi proibizioniste invece di capire le differenze tra le varie droghe e i motivi per cui i giovani le usano. E da 12 anni non viene convocata la Conferenza nazionale sulle droghe. "Libera dalle droghe sarà la società capace di autocritica e dunque di vera trasformazione – ha scritto Luigi Ciotti in Droga, storie che ci riguardano– una società che non abbia paura di chiedersi perché negli stupefacenti o in altre forme di dipendenza tante persone cerchino un illusorio rimedio al vuoto di senso, di relazioni, di opportunità. E anche dai loro bisogni ricostruirsi come realtà accogliente, inclusiva, solidale". Può suonare un’utopia, a fronte dell’immobilismo politico e della rimozione culturale, ma è l’utopia che da sempre spinge e orienta il nostro lavoro.

(pasquale somma, Sportello Accoglienza del Gruppo Abele)

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