NotizieIo, vittima che ha scelto di denunciare un marito violento

Il 25 novembre, come ogni anno, si celebra la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. Una giornata nata per ricordare e, insieme, per denunciare un fenomeno che ha assunto numeri spaventosi e che si consuma, con buona pace delle propagande, essenzialmente in ambito domestico o tra conoscenti. Soltanto in Piemonte, si stima siano oltre 2300 le donne che si rivolgono annualmente ai centri antiviolenza. Per questo 25 novembre, abbiamo quindi deciso di dare voce a un'esperienza diretta, quella di una donna vittima del proprio marito e che, alla fine, dopo anni di tentativi, ha scelto di denunciare. La storia, volutamente protetta da anonimato, è stata raccolta dalla comunità mamma/bimbo del Gruppo Abele.

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Il 25 novembre, come ogni anno, si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una giornata nata per ricordare e, insieme, per denunciare un fenomeno che ha assunto numeri spaventosi e che si consuma, con buona pace delle propagande, essenzialmente in ambito domestico o tra conoscenti.
Soltanto in Piemonte, si stima siano oltre 2.300 le donne che si rivolgono annualmente ai centri antiviolenza.
Per questo 25 novembre abbiamo quindi deciso di dare voce a un’esperienza diretta, quella di una donna vittima del proprio marito e che, alla fine, dopo anni di tentativi e fallimenti, di promesse scampate e mai mantenute, ha scelto di denunciare.
La sua storia, volutamente protetta da anonimato, è stata raccolta dalla Comunità Mamma/Bimbo del Gruppo Abele.


Mio marito era un ragazzo delicato e sensibile. E mi venerava. Mi ha ammaliato, mi voleva bene. Tanti anni di matrimonio e due caratteri diversi. Eravamo dipendenti uno dall’altro. Mi faceva sentire importante. Lui mi vedeva come la sua salvezza e io mi sentivo un po’ come fossi la sua crocerossina. Anche la mia famiglia di origine l’ha accolto come un figlio. Per ricambiare questo affetto incondizionato, si offriva per fare piccoli lavori in casa.

Sapevo che, in passato, aveva fatto uso di eroina, ma ero certa fosse cambiato. Io ci vedevo tenerezza e protezione in lui. Oggi, a posteriori, mi rendo conto che non è mai stato non-dipendente: prima i cannabinoidi, poi i farmaci, alla fine l’alcol.

Ed era dipendente anche dal nostro rapporto. Dava dipendenza, chiedeva dipendenza. Eravamo sempre insieme: durante le pause pranzo, nel tragitto da casa a lavoro e viceversa. Mal sopportava la vicinanza dei colleghi maschi. Se mangiavo fuori, in loro presenza, mi chiamava in continuazione. Era sempre geloso, ossessivo. Io associavo tutto questo al bene e non dicevo nulla. Però, intimamente, dentro di me, sapevo che era un rapporto malato e che c’era qualcosa che non andava, ma finché ci sei immersa, tutto sembra normale. Il lavoro era alla fine il momento della libertà. Ma se c’era lui presente o era nelle vicinanze lo era meno. Le sue reazioni erano imprevedibili.

Come quella volta, al ristorante, quando uno sguardo percepito in più da parte del pizzaiolo è valso al pizzaiolo un pestaggio. Ho a lungo creduto che queste reazioni fossero sintomo di protezione e della sua conseguente paura di perdermi. E invece erano altro.

Fumava, mio marito. Poi, con la revoca della patente, è successo del passaggio dall’hashish all’alcol. Costretto in casa per tre giorni, sembrava sull’orlo dell’impazzimento: apriva e chiudeva le finestre, manifestava aggressività. È stato allora che ha scoperto la bottiglia. E l’alcol, lì per lì, ha funzionato da calmante. Ero felice per la situazione. Invece, stava solo per cominciare un nuovo incubo.

Quando fumava mi rubava i soldi. Tanti. Quaranta euro ogni giorno. Però mai era stato aggressivo o, peggio, violento in famiglia. Non con me, non con i nostri figli. Fuori sì, ma con gli altri. Ora per procurarsi soldi per il fumo, ora per gelosia. Ma a casa tornava sempre disteso e si tranquillizzava. L’alcol ha cambiato le cose. E ha cambiato lui, i suoi atteggiamenti verso di noi.

Ha cominciato a bere prima della nascita del secondo figlio. Era diventato facile alle mani. Una volta ha aggredito un kebabbaro, un’altra addirittura un carabiniere. Finiva in carcere per pochi giorni. Con l’alcol sono arrivate anche le prime allucinazioni. Dichiarava di vedere soldati ovunque, si sentiva accerchiato e impaurito che qualcuno potesse sparargli. E allora prendeva a spaccare tutto, a spingermi, a inveire contro di me. Fino a che, esausto, cadeva a terra, agonizzante.

Abbiamo provato ad affrontare la situazione insieme. Al Sert l’hanno subito definito “cattivo bevitore”. E invece, io ho pensato “Lo aiuterò, lo salverò”. Lo accompagnavo per mano a ogni seduta, appuntamento dopo appuntamento. Ha cominciato a prendere farmaci potenti, antidepressivi. Era quasi sedato e ho creduto di nuovo che tutto potesse aggiustarsi. Era tornato a lavorare e giocava con i bambini. Poi di nuovo il gorgo della bottiglia, irresistibile.

Alla fine, stremato, in uno dei pochi momenti lucidi, ha chiesto di esser portato in comunità. Sono ricominciati così gli incontri, gli appuntamenti, le cure: il centro crisi, io e bimbi sempre al suo fianco, poi la comunità, un percorso di tre mesi. Ne passa uno e arriva una telefonata che annuncia il ritorno a casa: “Una prova”, dice. E invece quello stesso giorno mi confessa un’altra verità: che ha lasciato il percorso. E lo fa davanti a una birra.

È l’inizio della fine. Le crisi diventano frequenti, come frequenti gli svenimenti. Ogni posto chiuso della casa si trasforma in un nascondiglio, buono per le bottiglie che beve creduto di non essere scoperto. Infine, la violenza e le mani al collo. Il mio rifugio, con i bambini, è casa dei miei, per un periodo di tempo la sola oasi.

Io però mi sentivo assalita dai sensi di colpa. Credevo di essere io il problema, incapace ad aiutarlo e ad accompagnarlo. Mi sentivo giudicata da parenti e amici. La denuncia è arrivata per disperazione quando un giorno ha provato a sfondare la porta d’ingresso di casa dei miei genitori. Se lo sono portato i carabinieri.

Dal carcere ha cominciato a spedirmi lettere strazianti. Realizzare che non era più mio marito, l’uomo che avevo sposato e amato è stato pari a un lutto per me. Di lì il tarlo del dubbio sulla mia incapacità. Solo entrando a mia volta in struttura e con un mio percorso, ho compreso che le risposte sono molto più complesse di un senso di colpa.

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