NotizieLa vita al tempo della guerra

Un giorno, era il 1962, Bob Dylan stava passeggiando per strada. D'un tratto restò colpito dall'operosità dentro un cantiere gigantesco, popolato all'inverosimile di operai. Si domandò cosa potesse spingere nell'uomo cotanta urgenza. La risposta gliela diede qualcuno obiettandogli che, quel buco nella terra, altro non era se non la parte interrata di un rifugio antiatomico.Quel giorno nacque uno dei pezzi più rabbiosi di Dylan, Let me die in my footsteps. Che tradotto non suona molto distante da: "lasciatemi morire camminando".Dylan diceva proprio all'attacco della canzone che era proprio una bestemmia dell'esistenza morire sottoterra "solo perché qualcuno dice che la morte è prossima".Vero.

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Un giorno, era il 1962, Bob Dylan stava passeggiando per strada. D’un tratto restò colpito dall’operosità che si muoveva dentro un cantiere gigantesco, popolato all’inverosimile di operai. Si domandò cosa potesse spingere nell’uomo cotanta urgenza. La risposta gliela diede qualcuno obiettandogli che, quel buco nella terra, altro non era se non la parte interrata di un rifugio antiatomico.
Quel giorno nacque uno dei pezzi più rabbiosi di Dylan, Let me die in my footsteps. Che, tradotto, non suona molto diverso da: “lasciatemi morire camminando”.
Dylan diceva, proprio all’attacco della canzone, che era una bestemmia all’esistenza morire sottoterra “solo perché qualcuno dice che la morte è prossima”.
Vero.
Vero anche però che quando la guerra picchia forte e fa tutti i rumori del mondo, di quelli che non ne puoi più di sentire, di quelli che portano solo polvere nell’aria e tra i capelli, anche le viscere della terra devono apparire un’alternativa tutto sommato accettabile.

Il rifugio antiaereo industriale che mette in collegamento corso Trapani e via Sestriere (siamo nella al confine tra i quartieri San Paolo e Pozzo Strada), l’allora fabbrica di carrozzerie per automobili Pinin Farina con l’allora fabbrica di lingotti d’oro Dubosh, l’abbiamo scoperto per caso, camuffato com’era dietro una parete a specchio (pacchiana, pacchianissima) tirata su qualche decennio più tardi.
Si snoda e s’insinua per circa trecento metri nella pancia di terra proprio sotto al Gruppo Abele, 12 metri e svariati scalini più in basso rispetto alla strada. Era camuffato, sì, ma non chiuso una volta e per sempre, tanto che per liberarne il cammino dalle rovine e dalla mondezza è stato necessario un lungo lavoro di braccia e di fatica. Giorni e giorni di guanti, caschetto, lampada, pala, a scandagliare, scavare, spostare, buttare via, sapendo che, ogni volta, dietro a un cumulo di niente, di cocci e massi, potevano spuntare un ambiente nuovo, una lampadina, un tubo frantumato dalla ruggine, una porta in ferro blindata, un secchio al posto del gabinetto, uno scalone, le staffe che un tempo reggevano al muro le panche.
A guardarsi attorno laggiù c’è da scoprire la vita com’era al tempo della guerra, quando il rumore delle sirene filava il destino del tempo e della gente come le Parche greche. Questo rifugio, 85 metri quadrati in tutto e tre accessi di cui uno solo ancora utilizzabile, dà la dimensione della disperazione e, insieme, della voglia di continuare a vivere.
Per questo, per rispetto al dolore della gente e per onorare la tenacia di una città dal passato operaio e industriale resistente, abbiamo deciso di candidare questo rifugio, che è il nostro rifugio e di tutti, torinesi e non torinesi, come luogo del cuore Fai 2018.
Non sarà arte in senso pieno, ma come l’arte mette l’ingegno umano a servizio degli altri.
Questa è, in effetti, la cosa che ci ha colpito di più e che di più vogliamo rimarcare.
Perché quella fetta di mondo nascosto torni a essere mondo.
E perché la quiete di un palazzo nobiliare, lo sciabordio delle onde, l’imponenza del museo, il silenzio del giardino hanno dosi di meraviglia infinite. Ma in quanti abbiamo mai ascoltato il buio pensante di un rifugio antiaereo?

(piero ferrante, ufficio stampa)



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