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NotizieMolestie alla donna, naufragio del subumano

Premesso che c'è una sostanziale differenza tra un complimento gentile o al limite scherzoso – che però bisognerebbe rivolgere solo a persone conosciute – e una molestia, il centinaio di denunce di donne molestate a Rimini durante l'annuale adunata degli Alpini spinge a una riflessione sull'immaginario psicologico del maschio medio occidentale, che indossi o meno una divisa (spesso simbolo di una forza autoritaria perché priva di autorevolezza) e che sia alterato o meno da bevande alcoliche o altri intrugli che infondono intraprendenza e disinvoltura.

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Premesso che c’è una sostanziale differenza tra un complimento gentile o al limite scherzoso – che però bisognerebbe rivolgere solo a persone conosciute – e una molestia, il centinaio di denunce di donne molestate a Rimini durante l’annuale adunata degli Alpini spinge a una riflessione sull’immaginario psicologico del maschio medio occidentale, che indossi o meno una divisa (spesso simbolo di una forza autoritaria perché priva di autorevolezza) e che sia alterato o meno da bevande alcoliche o altri intrugli che infondono intraprendenza e disinvoltura.

Oltre all’esser un atto che può preparare il campo – se gli si offre l’occasione – alla brutalità, allo stupro, alla violenza, molestare una donna è un atto prima che da sotto-maschio da sub-umano. Dove per “subumano” bisogna intendere una persona che, per limiti suoi o del contesto socio-famigliare in cui è cresciuta, non ha portato a compimento quel naturale sviluppo che permette la coesistenza in un medesimo individuo di una parte maschile e una femminile. Sviluppo che precede l’orientamento sessuale e che solo permette a quest’ultimo di non assumere forme brutali, rapaci, proprietarie. Per dirla in estrema sintesi: per l’uomo che ha riconosciuto e coltivato la sua parte femminile non tanto in termini di “effeminatezza” ma d’innata gentilezza, delicatezza e sensibilità, molestare una donna è un atto inconcepibile se non al prezzo di provare, un attimo dopo, schifo per sé medesimo.

La presenza del femminile nel maschile e viceversa, il loro reciproco e armonico sviluppo, non è poi altro che uno dei frutti mirabili della complessità della vita, vita che si genera e rigenera attraverso le relazioni e non le opposizioni, vita che continuamente insegna – ahilei, senza grandi risultati – la pace e la cooperazione a umani degenerati in fantocci di polemica e macchine di guerra.

"Ma i vivi errano, tutti, perché troppo nettamente distinguono" scriveva l’immenso Rilke. Ora, non si pretende che tra una marcia e l’altra, un’adunata e l’altra dei militari passino il tempo leggendo le Elegie Duinesi. Ma sappiano, gli alpini colpevoli delle molestie, che il loro “ideale” maschile sta per fortuna naufragando. Grazie alla crisi di consolidate categorie e vetusti “paradigmi”, crisi provocata dalla pandemia e dalle sue conseguenze nella psiche dell’uomo occidentale (crisi cui tale uomo risponde con la violenza ansiosa di un Putin o con le reprimende da “anime belle” dei leader occidentali) si sta affacciando un nuovo e davvero altro genere umano. Genere la cui identità non è più riducibile alle rappresentazioni del “maschile” e del “femminile” che la triade Scuola-Patria-Famiglia ci ha propinato da almeno un paio di secoli (rappresentazioni entrambe generiche, caricaturali, comunque grossolane rispetto al delicato intreccio di sfumature e contraddizioni che caratterizza la natura umana).

Nuovo genere umano che personalmente osservo camminando per le strade di grandi città come Torino e Milano, dove sempre più spesso mi capita d’incontrare giovani maschi adolescenti che non ostentano né mettono in scena la loro femminilità, ma semplicemente la esprimono con la grazia dei fatti naturali, grazia e bellezza che hanno ad esempio gli incorrotti bambini e gli animali.

Spesso mi chiedo anche cosa direbbe e scriverebbe di questa “mutazione antropologica” un rabdomante dell’anima come Pier Paolo Pasolini, mutazione che solo i “matusa” al potere non sentono, non vedono o non vogliono vedere (termine, “matusa”, che non significa beninteso uomo attempato ma anima appassita).

Certo ci inviterebbe, Pasolini, a non buttare nel cesso quest’enorme occasione di cambiamento lasciandola preda delle spire seduttive del “mercato” o di scintillanti passerelle televisive in euro o mondovisione.

Poco importa infine come chiamarli, questi nuovi umani (anche se a un’intima amica “non binaria” mi sono permesso dire che il termine “non binario” è debole come tutti quelli che si definiscono per negazione, riconoscendo così implicitamente la logica che li esclude: non sarebbe meglio “oltre-binario” o “extra-binario?”).

Poco importa, dicevo, come chiamarli. Ciò che importa è che saranno queste avanguardie di un altro genere umano a portarci fuori dal pantano di questo tempo devastato, devastante e, nelle ore “libere”, pure molesto.

(fabio cantelli anibaldi, vicepresidente del Gruppo Abele)

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