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NotizieQuello spettacolo nero chiamato mafia

Intervista a Marcello Ravveduto, docente di Digital Public History nelle università di Salerno e di Modena e Reggio Emilia, in occasione dell'uscita (il 10 luglio) del suo "Lo spettacolo della mafia", pubblicato per le Edizioni Gruppo Abele

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'A megghiu parola è chidda ca 'un si dici. La parola migliore è quella che non si dice. Questa frase, in dialetto siciliano e ritradotta in Italiano, un invito all'omertà come promessa, la menziona anche Enzo Ciconte. Lui, Ciconte, che ha firmato la prefazione a Lo spettacolo della mafia, il nuovo libro di Marcello Ravveduto appena uscito (10 luglio) per le Edizioni Gruppo Abele. Lui, Ravveduto, che invece prova a smontare questo assioma come fosse totem, dipingendo, con il rigore scientifico della public history, un mondo permeato di linguaggi e immaginario mafioso.
Lo abbiamo intervistato sui temi cardine della sua ricerca.

Il suo libro si apre con queste parole: “Tra mafie e media esiste un’attrazione fatale”. Cosa significa e come si spiega?
Significa che le mafie sono sempre state un racconto pubblico. Un racconto che, a seconda delle epoche, s’è fatto letteratura, cinema, televisione, videogioco, documentario, fiction e docufiction. Le mafie, prima fra tutte cosa nostra, hanno sempre trovato un posto speciale nella narrazione di questo Paese, in special modo laddove questa narrazione si nutre della morbosità del male. Eppure, se ci pensiamo bene, appare evidente come la conoscenza che abbiamo delle strutture mafiose dipenda in gran parte proprio dal racconto pubblico che è stato fatto di loro dall’Ottocento in poi. È un’attrazione vicendevole, quindi tra chi vuole essere raccontato e chi racconta.

Le strutture criminali organizzate hanno sempre avuto un proprio immaginario, volto a rappresentarsi in maniera suadente. Come a dire: la vita da mafioso è bella. Cosa resta di quell’immagine classica del mafioso?
Parecchio. Le mafie mantengono un racconto di lungo periodo. Molti degli atteggiamenti assunti da boss, affiliati e finanche dai ragazzini che aspirano a entrare nel giro dei clan, e che sono funzionali all’ostentazione del proprio potere (economico e criminale), sono pose ereditate dal passato. Sono atteggiamenti scientificamente studiati, mai improvvisati, presi in prestito dai libri o dai film e già in voga nell’Ottocento. Niente di nuovo, fin qui. Quel che invece è nuovo è il canale che trovano per diventare pubblici. Venendo meno l’unicità dell’intermediazione mediale dell’intellettuale o, genericamente, dell’esperto, la narrazione delle mafie è affidata alle mafie stesse. È un cambiamento epocale: per la prima volta nella Storia della mafia è la mafia che racconta la mafia. Siamo quindi passati dalla narrazione all’autonarrazione.

E in tutta questa rivoluzione narrativa le mafie hanno modificato il linguaggio o ne hanno inventato uno nuovo?
Fanno anche di più: lo risemantizzano. Il risultato è un gigantesco mash-up, una miscela scomposta di canzoni, citazioni, stereotipi, immagini, aneddoti più o meno reali da un lato e post sui social, emoji identificativi, video e fotografie dall’altro lato.
Per noi, che abbiamo ereditato la visione delle mafie dei romanzi di Leonardo Sciascia, dai racconti di Danilo Dolci o dai film di Elio Petri e Francesco Rosi, si tratta di un vero e proprio sovvertimento culturale.
Ma in questo sistema di medium social, quella narrazione originale non scompare, ma si trasforma per mano di questi prosumer, soprattutto prosumer camorristi, che generano un racconto che alterna vecchio e nuovo.

Un capitolo è dedicato alla Google Generation, ovvero alle nuove generazioni di mafiosi o di aspiranti tali. Da loro proviene questo mutamento?
Questi muschilli vivono comunità dalle regole assurde che, mentre fanno dell’esaltazione di sé e delle proprie gesta l’obiettivo primario della narrazione, d’altro canto prova a essere esclusiva. Su facebook, per esempio, esistono dei gruppi privati ad accesso controllato, cui si arriva dopo molti filtri (difficilmente superabili ma superabili), che restituiscono perfettamente l’idea di queste comunità ristrette, quasi parentali dove si condivide di tutto: messaggi, visioni, orizzonti culturali. In questi gruppi sussiste una forte composizione di reale e irreale, fino quasi all’indistinguibilità, che crea un interreale criminale. Un mondo di vero e non vero con regole sue e suoi canoni di comunicazione e dove si fa uso e abuso di un gergo che è sempre più simbolico.

Esiste un immaginario dell’antimafia? Ed è altrettanto attrattivo?
Esiste ed esiste da tempo. Ed è talmente importante da aver contribuito a scrivere pezzi importanti della Storia repubblicana d’Italia. Però il limite è che manca di attrattività. È un immaginario che è stato a lungo incentrato sulla sola narrazione del lutto per le vittime e che, per il fatto di dover fare i conti col dolore dei familiari, si è strutturato con molta più lentezza e con una certa fatica. Ma è in evoluzione: la cinematografia sta contribuendo più di tutto, ma anche la letteratura e alcuni luminosi sprazzi di serie televisive hanno provato a raccontare l’antimafia al di fuori del suo carattere agiografico. Ma c’è tutto un mondo che deve essere raccontato. Sta a noi farlo.

Scarica la scheda del libro

Scarica il comunicato stampa



(piero ferrante)

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