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NotizieTransgender, una normalità possibile. Dialogo con Porpora Marcasciano

Il 20 novembre si celebra il Transgender Day of Remembrance (TDoR) per commemorare le vittime dell'odio e del pregiudizio anti-transgender. La Giornata è anche un po' l'occasione per fare il punto sulla strada fatta e quella ancora da fare in materia di diritti per le persone transessuali e trans-gender. Per capire che aria tira ci siamo rivolte a Porpora Marcasciano, presidentessa del Mit di Bologna

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Il 20 novembre si celebra il Transgender Day of Remembrance (TDoR) per commemorare le vittime dell'odio e del pregiudizio anti-transgender. Sabato 19 novembre il centro di Torino sarà attraversato dalla consueta marcia organizzata dal Torino Pride che partirà alle 16:30 da piazza Vittorio. La Giornata è anche un po’ l’occasione per fare il punto sulla strada fatta e quella ancora da fare in materia di diritti per le persone transessuali e trans-gender. Il 2016 è stato un anno di segnali contrastanti: da una parte l’approvazione delle unioni civili in Italia, dall’altra l’espansione di correnti populistiche poco sensibili alle pari opportunità. Per capire che aria tira ci siamo rivolte a Porpora Marcasciano, presidentessa del Mit (Movimento Identità Transessuale) di Bologna.

Il Mit è sicuramente un osservatorio privilegiato per capire quale direzione si stia prendendo. Qualcosa sta davvero cambiando, non solo dal punto di vista legislativo ma anche culturale? Qual è il suo punto di vista?
La mia risposta non può che essere contrastante: da alcuni punti di vista si assiste a un cambiamento positivo ma ci sono tante criticità che persistono. Un dato positivo è che sempre più giovani si rivolgono a centri specialistici come il Mit sostenuti e accompagnati dalle famiglie. Questo fa la differenza: chi vive la propria transizione insieme alla famiglia ha una serenità maggiore rispetto a chi viene isolato. Si tratta di una cambiamento piccolo ma significativo: perché la famiglia rappresenta un microcosmo, ma la nostra società è fatta, appunto, di microcosmi. Un altra cosa positiva, ad esempio, è che la comunità trans sta crescendo: si diffondono le informazioni e le esperienze e quindi tante persone trovano il coraggio di venire allo scoperto. Chiaramente ad un aumento di persone corrisponde un aumento di problematiche; e se non siamo capaci di rispondere in tempi brevi le questioni non potranno che divenire più gravi. Nel crescere di queste situazioni positive c’è, allo stesso tempo, un rifiorire di episodi di intolleranza che molto spesso si trasformano in vera e propria violenza. Non parlo solo di emarginazione ed esclusione: secondo il report della ong Trangender Europe l’Italia è al secondo posto tra i paesi europei per il maggior tasso di omicidi e di violenze a danno di persone transessuali. E voglio sottolineare che al primo posto c’è la Turchia, che non è neanche un paese europeo. Questo è sicuramente legato al fatto che siamo più visibili: è inevitabile che ci siano delle reazioni da parte di quella fetta di popolazione intollerante, specie se fomentata da tutta una serie di politiche che non smettono di soffiare sul fuoco…

L’associazione Mit nasce nel 1979 con lo scopo di ottenere il riconoscimento del cambio di sesso, raggiunto poi nel 1982 con la celebre legge 164. A 34 anni di distanza, quali sono, oggi, gli obiettivi a breve e lungo termine?
La nostra è anzitutto una missione culturale. Non possiamo svolgerla in un giorno e non possiamo risolvere i nostri problemi con una legge. Abbiamo bisogno dell’impegno di tutti per una battaglia che duri nel tempo. In Italia la transessualità e l’identità di genere sono sempre state trattate con diffidenza, se ci limitassimo a seguire i parametri europei in materia sarebbe già un grosso passo avanti. Un esempio? Quasi tutti i paesi europei si sono dotati, su richiesta dell’Europa stessa, di un provvedimento contro la violenza transfobica. Noi che cosa stiamo aspettando?
Un’altra battaglia da portare avanti è quella per l’inserimento lavorativo. Per scalfire i pregiudizi che impediscono a tante persone trans di lavorare serve l’impegno delle istituzioni ma anche di tutta la collettività. A mio parere questo significherebbe davvero far crescere il Paese, anche dal punto di vista economico: le nazioni che ampliano i diritti sono anche le economie più forti. Le società che si chiudono, invece, si impoveriscono e finiscono per dissolversi… Questo non lo dico io, ce lo insegna la storia. Considerando anche il mero aspetto economico il risultato non cambia: permettere alle categorie finora escluse dal mondo del lavoro di avere un impiego è importante. Se ne sono accorte alcune grandi imprese perché i trans rappresentano una fetta di mercato: escluderli non solo non è giusto, ma non fa bene neppure ai bilanci.
Un’ulteriore battaglia che abbiamo portato avanti è quella sul cambio del nome: non siamo riusciti a convincere il Parlamento a legiferare in materia ma nel 2015 due sentenze, della Cassazione prima e della Consulta poi, hanno stabilito che è possibile cambiare il proprio nome nei documenti senza dover ricorrere all’intervento chirurgico. Si tratta di una conquista importante perché quel nome sul documento rappresenta un marchio che penalizza la persona in tutto. I servizi in Italia, dalle carceri ai centri di accoglienza, sono divisi in maschili e femminili. Pensate a una persona il cui nome sul documento non corrisponda all’aspetto esteriore, che venga ricoverata o, banalmente, che debba semplicemente andare a votare una cosa è certa: quel nome è penalizzante per la persona e imbarazzante per la struttura che spesso non sa come intervenire. Insomma si tratta di un bel passo avanti e costituisce un esempio di come lì dove non arriva la politica, possono arrivare le persone e le associazioni.

In questi mesi i giornali hanno ospitato polemiche sulla cosiddetta teoria del gender, spesso limitandosi ad fare da megafono a battaglie puramente ideologiche. Il solo fenomeno della violenza sulle donne ci ricorda però che c’è ancora molto da fare… Nel 1973 Elena Giannini Belotti pubblicava Dalla parte delle bambine, dimostrando che gli stereotipi vengono trasmessi fin dalla prima infanzia, spesso anche in maniera del tutto inconsapevole. Quali strumenti educativi sono possibili per una società davvero libera dai pregiudizi di genere?
Credo che bisogna entrare nelle scuole senza mettersi in cattedra, con pochi strumenti ma chiari. Servono testimonianze piuttosto che maestri: l’esempio delle persone e delle loro storie è sempre basilare. In Italia c’è ancora molto da costruire: nelle scuole manca l’educazione sessuale e l’educazione al genere… La crescita della violenza contro le donne non può non essere legata all’educazione delle nuove generazioni. Nei contesti in cui questa formazione e informazione c’è stata il cambiamento è avvenuto ma nonostante ciò oggi assistiamo a una forte chiusura delle scuole e del Miur stesso. In Italia c’è ancora chi crede che vogliamo far cambiar sesso ai loro figli. L’esperienza trans diventa sempre più visibile e questo viene percepito come pericolo, come se fosse in atto una campagna volta a transessualizzare le masse!

I media tendono a spettacolarizzare il fenomeno della transessualità portando avanti i personaggi piuttosto che le persone. Quanto questa tendenza alimenta il pregiudizio piuttosto che normalizzare la presenza delle persone trans nella società?
Quasi tutti i modelli trasmessi dai media non favoriscono l’integrazione e la normalizzazione. Quello che ci viene proposto è spesso uno stereotipo, un cliché: si passa dalla vittimizzazione all’immagine folcloristica esagerata. Tra questi due poli ciò che manca è il quotidiano: la normalità, fatta di gioie e sofferenze, che costituisce il vissuto di una persona trans. La scuola, il lavoro, la violenza… Sono tante le sfaccettature, e non possono essere ricondotte solo alla prostituzione o allo spettacolo. Qualche giorno fa mi ha chiamato una trasmissione televisiva che mi chiedeva dei dati sui fidanzati e sui clienti dei trans facendo confusione tra i due ruoli: alla fine mi sono rifiutata di fornire i dati. Da una parte c’è molta ignoranza ma dall’altra c’è anche una ricerca dello scoop a tutti i costi. E pur di rispondere alle esigenze editoriali di certe trasmissioni si è disposti a ipersemplificare, equivocare, disinformare. Su questo tema è intervenuto anche l’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali): nessuna integrazione è possibile se manca da parte dei media un’informazione corretta o quantomeno rispettosa.

(valentina casciaroli)

In questo articolo Cultura e formazione

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