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NotizieTre anni di corridoi umanitari: quando l'accoglienza diventa integrazione

Una ricerca condotta per l'Università statunitense di Notre Dame (nell'Indiana) traccia il profilo della sorte delle 318 persone giunte in Italia nel 2018, primo anno di apertura dei corridoi umanitari. Di questi, il 50% ha scelto di rimanere nel nostro Paese e solo il 12% di interrompere il percorso

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Fermare chi migra significherebbe avere la pretesa antistorica di fermare il tempo. Economici, ambientali, in fuga da guerre e carestie, i popoli in cammino sono quelli che non subiscono la storia. Tutto sta a fare in modo che il loro migrare sia il più sicuro possibile, al riparo dai venti di mare e dal sole impietoso, dalla benzina mischiata all'acqua di mare che brucia la pelle e dalle botte degli scafisti.
I corridoi umanitari sono la risposta concreta a questi rischi: il metodo giusto, collaborativo, partecipato, che aiuta a garantire, al contempo, il diritto al viaggio e quello alla cura. Un sistema che, grazie al ticket pubblico/privato sociale, fa dell'accoglienza un principio attivo e non una semplice opera di assistenzialismo.

Che il metodo funzioni lo dice per esempio la ricerca Human lines, condotta dalla professoressa svizzera Ilaria Schneyder von Wartensee per conto dell'Università Notre Dame dell'Indiana. Lo studio, che diventerà un documentario per il web, è basato su questionari rivolti a migranti e operatori per provare a tracciare un quadro della sorte delle 318 persone giunte in Italia nel 2018, anno di avvio del primo progetto pilota di corridoio umanitario. Secondo lo studio di Schneyder, la metà delle persone è rimasta sul territorio italiano, segno di un progetto di vita che continua indipendentemente dalla speranza riposta nel motivo iniziale del viaggio (sono i motivi di salute a determinare l'apertura del corridoio). A fronte di questo 50% c'è un 38% che, al termine dei 12 mesi, ha deciso di fare ritorno nella terra di partenza. Si ferma al 12% invece (poco più di una trentina di persone dunque) la percentuale di quanti hanno interrotto il percorso, percorrendo a ritroso la strada che li aveva portati in Italia. Resta però un dato su tutti: solo il 6% delle persone è riuscita a rimanere in Italia con un lavoro regolare, segno di un'integrazione che arranca pesantemente in termini di conseguimento di autonomia.

Grazie ai corridoi, la comunità Il Filo d'Erba di Rivalta del Gruppo Abele, ha accolto, tra il 2018 e il 2020, due famiglie siriane in fuga dalla guerra, per un totale di 20 persone. Il primo progetto, risalente al 2018, sostenuto allora dall’associazione Accomazzi e dall’Unità Pastorale 6 di Torino, ha permesso a 11 persone di stabilirsi definitivamente a Rivalta.

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(piero ferrante)

In questo articolo Famiglie, Immigrazione

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