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NotizieLa rotta balcanica e la Val di Susa, la risposta non può essere il volontariato

Oulx, Val di Susa. Ad accogliere i sopravvissuti della rotta balcanica, spesso e volentieri respinti alla frontiera con la Francia, è rimasto solo il Rifugio Massi, gestito dell'associazione Talità Kum e per la parte sanitaria da Rainbow4Africa. Ma gli arrivi stanno aumentando e sono destinati nelle prossime settimane a crescere ancora di più. "Il volontariato - denuncia Paolo Narcisi, presidente di Rainbow4Africa - non può e non deve continuare a essere l'unica risposta"

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Indifferenza letale. É il titolo dell’ultimo rapporto dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani sulla ricerca, il soccorso e la protezione dei migranti nel Mediterraneo.

Ma non c’è solo il mare a inghiottire vite. E soprattutto, anche là dove l’indifferenza non ha patria, come tra le montagne della Val di Susa, si rischia di perdere il controllo della situazione. Per l’indifferenza delle istituzioni.

L’allarme parte da Oulx. Quassù arrivano i sopravvissuti della rotta balcanica. Con un solo obiettivo: finire il viaggio, passare in Francia per poi raggiungere la Germania o la Svezia. Dopo lo sgombero a fine marzo della Casa cantoniera occupata è rimasto solo il rifugio Massi - gestito dall’associazione Talità Kum e per la parte sanitaria da Rainbow4Africa - a offrire cure, cibo, conforto, vestiti e un tetto ai migranti.
Gli arrivi però continuano a crescere e sono destinati ad aumentare ancora. Mentre è notizia di queste ore che i fondi in arrivo da Roma, dal governo, saranno molto meno di quelli richiesti per evitare che la via di migrazione lungo i sentieri della Valle di Susa diventi una strada di morte.

“Il rifugio può accogliere al massimo 60 persone per notte - racconta Paolo Narcisi, presidente di Rainbow4Africa - e già così la gestione dei flussi di chi arriva, di chi riparte e soprattutto, e sono la maggior parte, di chi torna dopo essere stato respinto alla frontiera, non sempre con metodi diciamo congrui, è davvero complicata. Nella notte tra venerdì e sabato scorso però ci siamo ritrovati addirittura con 77 persone di cui occuparci”.

Una situazione destinata a peggiorare.
“Non occorre essere indovini per capire che in vista dell’11 settembre, del ritiro della Nato dall’Afghanistan ci sarà un ulteriore incremento dei flussi migratori. Ma già ora la Turchia sembra avere reso i propri confini più permeabili…”.

Chi sono le persone che incontrate?
“Per lo più si tratta di famiglie partite dall’Afghanistan e dall’Iran, con bambini anche molto piccoli o addirittura nati durante il viaggio. Un viaggio che dura in media due anni, a piedi fino in Croazia. Ogni spostamento implica un pagamento a uomini delle istituzioni, criminali, gente che a vario titolo li sfrutta. C’è dietro un’organizzazione capillare. Il passeur si mette d’accordo per una cifra, migliaia di euro. A quel punto la somma viene accreditata su un cloud, il passeur vede che i soldi ci sono e gli viene fornito un codice con cui potrà poi incassare”.

Tra gli ospiti della scorsa domenica, quando c’è stata anche la visita dell’arcivescovo Nosiglia, c’era una bambina di 12 anni con un’enorme cicatrice, risultato di un intervento cardiochirurgico d’urgenza non risolutivo in Grecia. Siete riusciti a convincere la famiglia a fermarsi, a far curare qui la piccola?
“No, anche in questo caso non c’è stato verso: un paio di giorni per rimettersi in forze e l’altra notte sono riusciti a passare. Spesso arrivano bambini con importanti patologie, soprattutto cardiologiche e polmonari. Ma appena stabilizzati ripartono. Quasi sempre si tratta di persone che avrebbero tutto il diritto di fermarsi in Italia, a prescindere dalla situazione sanitaria: donne che in Afghanistan hanno scoperto il lavoro e ora temono vendette e persecuzioni, professori e operai scappati dall’Iran per ragioni politiche”.

E perché ripartono?
“Perché i tempi burocratici italiani sono così lunghi, hanno così bisogno di certezze, che preferisco ripartire. In moltissimi casi, inoltre, sanno che in Germania o in Svezia troveranno comunità pronte ad accoglierli e sostenerli, ad aiutarli nel far curare i figli e nel trovar loro un lavoro. Ricordiamoci che si tratta di famiglie che hanno fatto un investimento e un sacrificio enorme per il viaggio, vogliono raggiungere la meta. E poi, quando arrivano in Italia hanno finalmente la sensazione di essere in Europa, possono usare i mezzi di trasporto e i cellulari, insomma c’è la speranza che il peggio sia ormai alle spalle”.

La Diocesi e le associazioni impegnate a Oulx ad aprile hanno presentato al ministero dell’Interno un progetto per potenziare l’accoglienza non solo per assistere in media 100 persone al giorno ma anche per realizzare un ambulatorio diurno, per poter allestire spazi di emergenza in caso di afflusso straordinario come in questi giorni e per un lavoro di assistenza sul confine con la Croce Rossa, già impegnata a recuperare nei boschi le persone respinte alla frontiera. Finanziamento richiesto: 900mila euro in due anni. Com’è finita?
“Quel che finora abbiamo saputo, anche se non ancora in forma ufficiale, è che siano stati stanziati appena 180mila euro. Ma così tutto rimane sulle spalle del privato. Il volontariato non può e non deve essere la sola risposta. I flussi migratori, le frontiere, la tutela della salute e dei diritti umani sono questioni che devono essere affrontate a livello istituzionale e con fondi dedicati”.

(barbara saporiti)

In questo articolo Giovani, Immigrazione

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