Il nostro amico Hamid, morto quando voleva rinascere

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Hamid Badoui si è ucciso pochi giorni fa nel carcere di Torino. Lo seguivamo da anni nella sua vita difficile, e sembrava fosse arrivata per lui l'occasione di risalire la china. Ma un periodo al CPR in Albania ha annientato le sue difese emotive

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Una porta oltre la quale cercare speranza, oppure che si chiude per sempre sulla tua disperazione.
Il carcere aveva rappresentato per Hamid un momento di svolta: proprio durante la detenzione aveva infatti deciso di provare a cambiare la sua vita. E noi, che da tempo gli stavamo accanto, lo avevamo incoraggiato con forza.
Le cose sono andate diversamente. Hamid Badoui era un nostro amico, e si è ucciso lunedì notte nella sua cella a Torino, dopo un nuovo arresto.

Lo conoscevamo da quando “abitava” sotto al portico della nostra sede di via Pacini, insieme ad altre persone senza casa, lavoro e prospettive. Lui che pure un tetto l’avrebbe potuto avere: quello di una sorella pronta a ospitarlo in casa sua. Ma si vergognava della dipendenza dal crack e non voleva pesare sulla famiglia. Non si sentiva abbastanza forte per uscirne. Diceva: “un giorno, adesso non è ancora il momento”.
Con noi era sempre gentile, amichevole, tranquillo. Veniva al Drop in ogni lunedì mattina a fare colazione e ritirare materiale sterile. Mediava quando qualcuno perdeva le staffe, sotto al portico. Collaborava alle pulizie per mantenere un minimo di decoro.

Dopo aprile 2024, quando quel rifugio di fortuna ha dovuto essere sgomberato per l’avvio dei lavori di ristrutturazione nel palazzo, l’equipe del Drop in ha continuato a incontrarlo durante le uscite in strada. Finché, nell’autunno, si è saputo che era stato arrestato. E proprio dal carcere Hamid ha chiesto di contattare il Gruppo Abele perché si era deciso a fare quel passo a lungo rimandato: chiedere aiuto a un Serd per smettere di usare crack. Eravamo così felici e orgogliosi di sostenerlo!
Tutto era pronto per quando fosse tornato libero: la sorella lo aspettava a casa, gli appuntamenti col medico erano già fissati, e intanto lo seguivano gli operatori interni alla struttura. Aveva promesso di non tornare a bazzicare in Barriera di Milano, perché temeva di ricadere subito nei vecchi giri. Per questo non ci siamo allarmati quando non l’abbiamo visto ricomparire.

La ragione vera si è saputa soltanto ora. Subito dopo la scarcerazione Hamid, che nei suoi anni randagi non aveva rinnovato i documenti di soggiorno, era stato rinchiuso in un CPR, e dopo qualche settimana dall’Italia trasferito in Albania, per un mese o poco più di prigionia che all’avvocato e ai familiari ha descritto come un periodo terribile.
Quando finalmente ha potuto rientrare a Torino – perché la legittimità di quel luogo di detenzione extra-territoriale è molto dubbia, e i tribunali impongono di rispettare i diritti umani! – era frustrato e sfinito. Non è ben chiaro cosa sia accaduto nel pomeriggio di sabato: forse Hamid ha subito una piccola truffa, o ha avuto un diverbio con un’altra persona. Quello che è certo è che ha chiesto lui stesso di chiamare la polizia, per essere difeso. Sperava in una giustizia immediata che non ci poteva essere, e ha reagito con esasperazione. L’hanno arrestato di nuovo, e a quel punto deve aver visto soltanto il buio davanti a sé. Temeva di essere rimandato al Cpr, che aveva vissuto come una punizione insensata e drammatica, peggiore del carcere. Non riusciva più a immaginarsi una via di uscita dai suoi problemi, una mano a cui aggrapparsi per risalire.

Hamid è morto e noi questa morte ce la sentiamo addosso come un fallimento di tutta la società. Che prima era riuscita, mobilitando le sue forze più sane e solidali, a disegnare un esile filo di speranza per una persona disperata. Poi invece quel filo ha lasciato che si spezzasse, sballottando quella persona già fragile in un’odissea burocratica che si rivela, una volta ancora, assurda e inumana.

Non ti dimenticheremo, Hamid, amico gentile in un mondo che per te di gentilezza non ne ha avuta abbastanza.