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Notizie“La chiusura delle scuole è un danno per tutti, ma il danno non è uguale per tutti”

Il 26 marzo è stato, in molte città, giorno di manifestazioni a favore del rientro in classe degli studenti. Le posizioni però non sono unanimi: il tema della salute pubblica dovrebbe prevalere, suggerendo cautela nel ritorno alla scuola in presenza? Ma la salute pubblica si può misurare solo in termini di controllo dei contagi? Ne abbiamo parlato con Valentina Sacchetto, educatrice presso un CPIA e coordinatrice dell'équipe formativa di Diskolé APS

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Il 26 marzo è stato, in molte città, giorno di manifestazioni a favore del rientro in classe degli studenti, e di interventi per rafforzare sia il personale scolastico che le strutture, per scongiurare nuove chiusure future. Le posizioni però non sono unanimi, e c’è chi dice che il tema della salute pubblica debba in questo momento prevalere, suggerendo cautela nel ritorno alla scuola in presenza. Ma la salute pubblica si può misurare solo in termini di controllo dei contagi da Covid19? Ne abbiamo parlato con Valentina Sacchetto, educatrice presso un CPIA e coordinatrice dell'équipe formativa di Diskolé APS, preoccupata soprattutto delle ricadute in termini di giustizia sociale e benessere psicologico dei bambini e ragazzi.

Durante una manifestazione di Priorità alla scuola ha detto: “La chiusura delle scuole è un danno per tutti, ma il danno non è uguale per tutti”. A chi si riferisce in particolare?
“La scuola chiusa fa crescere le disuguaglianze tra chi ha, per nascita, maggiori stimoli culturali e opportunità di relazione, e chi meno. Perché la scuola non è solo il luogo degli apprendimenti disciplinari, ma anche, come diceva Mario Lodi, lo spazio in cui l'io diventa noi, in cui si fa l’esperienza sociale della differenza. È uno spazio d’interscambio e contaminazione tra pari che non ha eguali per capillarità territoriale. Infine, è uno spazio pubblico: la prima occasione reale e simbolica offerta ai piccoli per uscire dalla sfera privata e confrontarsi pubblicamente. Tutta questa esperienza sociale viene ora a mancare ad alcuni in misura più grave. Penso a chi abita le periferie, penso ai miei ragazzi, minori stranieri non accompagnati, che vivono in comunità. Per loro la scuola rappresenta anche la possibilità di confronto con i coetanei, specialmente con l’altro genere: un elemento cruciale per la crescita sia affettiva che cognitiva. Questa chiusura penalizza dunque in particolare chi parte da posizioni di svantaggio. A scuola i banchi non sono tutti uguali: chi nasce in centro ha fino a 6 volte la possibilità di conseguire un diploma superiore rispetto a chi nasce in un quartiere periferico. E le case sono ancora meno uguali. C’è chi abita in pochi metri quadri insieme a tanti fratelli e sorelle; chi non ha rete o strumenti ma soprattutto le competenze per usare le tecnologie digitali con consapevolezza; chi, con la chiusura degli istituti, ha perso anche l’opportunità di mangiare in mensa un pasto nutriente”.

Neanche i ragazzi sono uguali fra loro. Da educatrice ha notato differenze nel modo di reagire alla situazione?
“Questo è un tema importante, che stimola la nostra capacità di osservare le trasformazioni. Viviamo un periodo di emergenze, in senso letterale e molto più ampio: ci servono lenti potenti e lucide per osservare ciò che si muove.
Durante il primo lockdown un giorno abbiamo proposto ai ragazzi di descrivere come stessero e cosa non gli mancasse della scuola di prima. C’era una studentessa di origine straniera del CPIA che in classe era sempre demotivata, difficile da coinvolgere. Quella volta mi ha inviato le risposte in formato fotografico via Whatsapp, e io mi sono trovata di fronte una meravigliosa, complessa poesia, di cui ricordo a memoria l’ultimo verso: “metto il fiore sul ramo spezzato, per farti credere che sia fiorito”. Le ho chiesto se ne avesse scritte altre e me le ha mandate, rivelandomi un talento straordinario e una sensibilità raffinata che fino a quel momento non avevano trovato l’occasione giusta per emergere.
Quando penso a questo episodio e a questo periodo in generale, in mente ho l’immagine della crosta terrestre: i movimenti delle placche provocano l’eruzione del magma in superficie; allo stesso modo la frattura traumatica della continuità, della normalità, ha fatto venire alla luce nuove esperienze. Guardare con occhi nuovi ci aiuta a scoprire parti inesplorate dei ragazzi e anche di noi stessi come educatori. Se la sospensione della scuola in presenza è un danno reale, altrettanto reale è dunque il bisogno di innovare le pratiche educative e i processi didattici in condizioni di normalità. Dobbiamo diventare più capaci di valorizzare gli studenti e le loro capacità, facilitare l’accesso autonomo alle conoscenze, considerare e accompagnare le differenze, ribaltando un approccio che troppo spesso tende a omologare”.

Cosa risponde a chi, pur ammettendo che la chiusura delle scuole crea disagio, sottolinea che “siamo in pandemia”, dunque non è il momento del conflitto ma dell’obbedienza?
“Come persona e come educatrice con un passato di studi in ambito filosofico-politico, penso che stia passando una concezione di democrazia molto edulcorata, per non dire adulterata. Una democrazia che espelle il conflitto dai confini di ciò che è anche solo pensabile, prima che praticabile. Eppure storicamente, in un’ottica di democrazia progressiva, sono stati proprio i conflitti sociali ad ampliare la sfera dei diritti e del riconoscimento. Si potrebbe dire che senza conflitti non esiste democrazia intesa nel suo farsi, nel suo divenire-democrazia. Il dispositivo mediatico tende invece a enfatizzare i conflitti tra categorie di persone ugualmente svantaggiate. Mi colpiscono ad esempio i continui articoli che additano i giovani come untori: in questo modo si costruisce un’avversione tra generazioni che rimuove le contraddizioni reali della situazione, e contribuisce a lasciare indietro i più deboli.
Le scuole durante lo scorso lockdown sono state le prime a chiudere mentre restavano aperte fabbriche e altri luoghi di lavoro: a me pare chiaro che ciò sia avvenuto perché il comparto educativo è stato ritenuto improduttivo. Si tratta di una scelta politica e proprio per questo cittadini e cittadine hanno non solo il diritto ma anche il dovere di discuterne, di elaborare analisi collettive e promuovere altre priorità. In questo senso mi pare apprezzabile la presa di parola degli studenti che in questi mesi si sono organizzati, con modalità e pratiche differenti, per far valere il proprio punto di vista”.

(cecilia moltoni)

In questo articolo Cultura e formazione, Famiglie, Giovani

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