killed by sistems

NotizieLa vittimizzazione collettiva, pane della politica

Il malinteso della vittima è il saggio appena pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele e scritto da Tamar Pitch, docente di filosofia e sociologia del diritto a Perugia, a cui abbiamo fatto qualche domanda per capire il paradosso di una società che per numeri risulta sempre più sicura eppure sempre più a livello individuale, richiede sicurezza

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Sul finale di una campagna elettorale povera di contenuti e proposte ma abile trasversalmente nel far sentire gli elettori a rischio di qualcosa, dal rincaro delle bollette all’invasione russa dell’Ucraina, il tema centrale è stato ancora la sicurezza.
Ma non la sicurezza sociale (salute, lavoro, casa ecc…), piuttosto la sicurezza come immunità personale rispetto al rischio di essere vittima di reati e ingiustizie. Tema di cui si sono servite per anni alcune forze politiche finendo per allargare un malinteso senso di vittimizzazione generale per cui tutti siamo vittime di qualcuno.
Il malinteso della vittimaè il saggio appena pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele e scritto da Tamar Pitch, docente di filosofia del diritto e di sociologia del diritto all’Università di Perugia, a cui abbiamo fatto qualche domanda per capire il paradosso di una società che per numeri risulta sempre più sicura eppure sempre più a livello individuale, richiede sicurezza.

Come è nata l’attuale epidemia di insicurezza, la paura di essere tutti potenziali vittime?
“È almeno dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso che vengono fatte ricerche sulla percezione di insicurezza da parte della cittadinanza, negli Usa e in molti Paesi europei. Da questa messe di ricerche, e dalla vastissima letteratura che le commenta e cerca di interpretarle, si ricava in primo luogo l’idea che non è poi chiarissimo di che cosa si parli: che cosa significa sicurezza; sicurezza rispetto a che cosa, a chi, e a quando.
Credo si possa dire che se vi è stato un aumento dell’insicurezza collettiva bisogna tuttavia tener conto, e non sempre si fa, che la collettività è costituita da persone molto diverse tra loro, per classe sociale, genere, provenienza etnica, età, e così via. Quindi l’insicurezza è molteplice: si differenzia a seconda della persona o del gruppo che la nutre. Ciò ha a che fare in primo luogo con l’infragilirsi dei sistemi di welfare, il venir meno della sicurezza del posto di lavoro (precariato, bassi salari, disoccupazione diffusa, ecc.). In questo contesto, hanno avuto e hanno un ruolo, in Italia ma non solo, il mutamento del panorama sociale e urbano dovuto alle migrazioni dall’esterno. Senza dimenticare l’uso che governi in cerca di consenso fanno di questa insicurezza dirigendola verso la criminalità di strada e i migranti”.

Quali sono le conseguenze più dannose dell’utilizzo su vasta scala del codice penale?
“Non è tanto l’uso del codice penale a creare il problema, giacché i processi di criminalizzazione prescindono in gran parte dal codice penale stesso, quanto l’uso del potenziale simbolico del penale, per via della sua attitudine a semplificare ogni interazione in un confronto tra colpevoli e vittime e dunque a depoliticizzare i conflitti sociali e politici, a privatizzarli in un certo senso, e a dividere la società in buoni e cattivi”.

“Il femminile è la figura principe della vittima” scrive nel libro Il manifesto della vittima. Quali sono le caratteristiche che si sommano nella donna “da proteggere” e quanto questa vittimizzazione rende paradossali tutte le conquiste dei movimenti femministi?
“Le retoriche giustificative delle politiche di sicurezza utilizzano le donne, assieme (come sempre) ai bambini e agli anziani, in quanto soggetti particolarmente vulnerabili, intrinsecamente fragili, esposte più del soggetto standard (maschio, bianco, adulto, sano) a rischi di vittimizzazione da parte di malintenzionati variamente identificati. È un modo tradizionale di concepire le donne: l’istituzione sociale genere attribuisce al femminile precisamente le caratteristiche di fragilità e debolezza, a cui le caratteristiche attribuite al maschile, forza e potere, fanno da contraltare. Al maschile così concepito, dunque, il compito di “proteggere” le donne. Da notare, in italiano, l’ambiguità del termine “protettore”.
Se, per un verso, l’autoattribuzione dello statuto di vittima, come spiego nel libro, è diventato da tempo uno dei pochi modi per avere qualche voice sulla scena pubblica e politica, ciò che mi pare succeda con alcuni movimenti femministi è che definiscono altre donne (quelle che si prostituiscono, per esempio, e quelle che accettano di portare avanti una gravidanza per altri) vittime, togliendo loro parola, e negando quindi loro soggettività, se non accettano di essere così definite. Cosa a mio parere molto grave per un movimento nato all’insegna del ‘partire da sé’.
In futuro il rischio maggiore di questo sistema è sempre più quello di dover accettare il ruolo unico di vittima per ottenere ascolto e visibilità, rinunciando alla propria dignità e autonomia come anche al progresso di battaglie tese a ottenere diritti che non necessariamente prevedono la dicotomia perbene-permale”.

(toni castellano)

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